Questo contributo sulle botteghe lepine si propone di cogliere, in maniera necessariamente sintetica, alcuni tratti, altrove più ampiamente sviluppati, della tradizione artigianale lepina, con le connesse rotture e modificazioni che la contemporaneità ha fatalmente introdotto. Di questa variegata ed effervescente realtà propongo tre figure emblematiche, sebbene certamente non rappresentative di un mondo ben più ricco e complesso. Sono un ramaio, un produttore di carciofini sott’olio, un maestro della stagionatura di prosciutti, tre storie significative che riassumono, in qualche modo, trasformazioni e continuità della figura locale dell’Artista, come veniva chiamato un tempo l’artigiano, ed offrono spunti di riflessione sul presente ed il futuro di questo ampio patrimonio culturale nei suoi livelli di relazione con la sfera produttiva, l’identità ed il territorio
Iniziamo da uno dei luoghi più emblematici dell’artigianato lepino, la bottega del ramaio; dell’ultimo ramaio di Roccagorga, situata nel cuore del suggestivo centro storico di Roccagorga (LT), in piazza Dante Alighieri, presso “Porta Nova”. Qui, nel dicembre del 2003, con Emilio Di Fazio abbiamo realizzato un video etnografico che riprende” Italotto gliò callararo” al lavoro, mentre, alla bella età di 82 anni, modella un concone di rame per l’EtnoMuseo Monti Lepini. Il video documenta la lavorazione e trasformazione artigianale di un cilindro di rame di fonderia (coccia), in un lucido ed elegante concone; caratteristica anfora ciociara usata dalle donne dei Monti Lepini fino agli Anni Settanta, per approvvigionarsi di acqua. A lungo questo oggetto domestico è stato il simbolo stesso della casa e del lavoro femminile, ed è divenuto oggi – come la capanna- uno degli emblemi dei Monti Lepini. Documentare quest’ “opera d’artista” non è tuttavia un omaggio romantico ad un’attività ormai praticamente scomparsa, ma piuttosto un modo per riflettere sul suo perdurante valore culturale, come preziosa eredità per il presente ed il futuro del territorio, per vari motivi. La bottega del ramaio era infatti laboratorio, officina, magazzino, atelier e “punto vendita” dove prendevano forma prodotti capaci di trasformarsi secondo il tempo e le esigenze. La prima crisi dell’artigianato del rame, nel secondo dopoguerra, legata all’avvento di nuovi materiali (alluminio, latta, ferro zincato, acciaio) è stata superata dagli artisti del tempo riciclandosi in stagnari, in idraulici, costruttori di pompe irroratrici, grondaie, oggetti d’arredamento in rame, oltre che conche e callare divenute nel frattempo beni di prestigio ed oggetti d’affezione, più che d’uso comune. Questa attività leggera e mercuriale è quindi capace di rigenerarsi e di costituire una risorsa mutevole ed adattabile.
Potrebbe rivelarsi strategica per il turismo ma anche per un artigianato hi-tech, adatto ai giovani. Il rame, nobile e plastico, è infatti un materiale che l’alta tecnologia rivaluta e che la ricerca artistica e scientifica valorizza per realizzare prodotti industriali e commerciali, utensili di alta qualità, strumentazioni scientifiche e gadget turistici che associano la bellezza al design del made in Italy.
Un secondo caso riguarda un’attività di trasformazione agro-alimentare tipica di Priverno: la lavorazione dei carciofini sott’olio. Anche in questo caso la testimonianza raccolta viene da uno degli ultimi artisti di quest’antica tradizione privernate, anch’essa in costante evoluzione-trasformazione. Nel capannone aziendale in località Ceriara, frazione di Priverno, risalta una esposizione di vasi da mostre con prodotti sott’olio. Il fondatore dell’azienda di famiglia, di questi vasi da esposizione (veri capolavori artistici) ne ha diversi, sparsi in vari posti; supermercati che rifornisce abitualmente, ristoranti che gli hanno chiesto “qualcosa di caratteristico” da mettere in mostra, a Fiuggi, a Roma, a Colleferro, a Velletri, ad Albano, ad Ariccia. Una tradizione che dunque fà anche spettacolo, come una mostra d’arte. “Priverno – ricorda – è rinomata per i carciofi, sono anni che ci sono queste industrie. Prima addirittura facevano cò piccole caldarelle casarecce stì lavori, poi li mettevano nelle buste, li portavano a Roma… Oggi gli unici rimasti a livello artigianale siamo noi. Gli altri si sò tutti buttati nei surgelati, sò partiti dalla tradizione pè arrivà lì.” L’azienda è percepita come una ‘bottega”: “È a conduzione familiare ed artigianale; quà ancora invasiamo i carciofi a mano; artisticamente. E’ un lavoro più scelto, anche se costerà qualcosa di più…però è una cosa diversa.” “Questa è la carciofoletta di Priverno, spiega ancora. “La qualità è data da tutto quello che metti dentro al vaso, partendo dall’olio. L’olio è locale: me lo fornisce una famiglia di qui. È importante come l’aceto. I carciofi sono stati presi nella zona di Priverno e alla cooperativa di Sezze. I vasi provengono da Fossanova”. Un caso di
“qualità locale e totale”, quindi prende forma nella filiera di trasformazione (artigianale e artistica) del carciofino in bene culturale. Che incorpora, cioè, qualità e saperi locali in composizioni artistiche di pregio, grazie ad una tradizione familiare e comunitaria che concorre a mantenere vivo un blasone comunitario di eccellenza riconosciuto a livello regionale e nazionale.
Un’altra attività “artigianale” vanta un prestigioso blasone locale grazie a saperi, tradizioni, tecniche, fattori ambientali e microclimatici “speciali” che consentono a cosci di maiale stagionati in loco di fregiarsi del prestigioso titolo di Prosciutti di Bassiano. Il prosciuttificio è situato in località Casanatola, in una valle protetta dai monti, tra faggi, querce, lecci, e massi di pietra viva e bianca in un paesaggio suggestivo e intenso. Il silenzio e la quiete, oltre l’aria collinare e le correnti provenienti dai lepini e dal mare fanno da balia ai prosciutti, lavorati in modo artigianale. Il “maestro prosciuttaio” spiega che “La tradizione del prosciutto a Bassiano nasce da una felice disposizione geografica, protetta dalle montagne per cui il prosciutto si manteneva in modo eccellente. Infatti gli anziani dicevano: “il vino di Cori, le olive di Norma e il prosciutto di Bassiano”. A Bassiano, aggiunge, non c’era una tradizione di lavorazione del maiale e dei prosciutti. Però, anche la gente dei comuni limitrofi, Sezze, Sermoneta, ecc., portavano i prosciutti qui, perché l’aria favoriva la stagionatura. Il processo di lavorazione prevede un ciclo del sale, poi, dopo un riposo in silenziose celle di ‘meditazione’, il prosciutto viene purificato, lavato, rifilato, rifinito ed insaporito con peperoncino, vino e aromi, per essere ritualmente consegnato alla sacralità della stagionatura. Ormai, la differenza dei prosciutti – confida il maestro prosciuttaio – sta solo nella stagionatura che apporta il suo caratteristico aroma e profumo, derivante dal microclima locale. I prosciutti stagionano in un salone vasto ed asciutto dal profumo acuto ed intenso, per 8 – 9 mesi. Dagli ampi finestroni che, sui due lati, corrono per l’intero locale, ci si affaccia sulla valle ed i monti circostanti, sospesi nel silenzio.E’ proprio la sapiente apertura
e chiusura di queste finestre a regolare la stagionatura. “In estate apriamo più a nord e di sera, d’inverno apriamo la parte più esposta al sole, in tarda mattinata. Utilizziamo molto la natura; ci serve. Si sente poi dalla piante che abbiamo intorno, il paesaggio, il microclima; crea quel profumo, quegli aromi che danno al prodotto quella particolarità che abbiamo solo noi.”
Che idea dell’artigianato lepino ricavare da queste sintetiche storie d’artisti, così simili e così diverse? Una tensione tra continuità e trasformazione, insospettate potenzialità ma anche possibili perdite sembra delinearsi. Saranno le giovani generazioni ad essere chiamate ad interpretare creativamente queste tradizioni locali di prodotti eccellenti da promuovere e sviluppare. Ciò sarà possibile se penseranno la “tradizione” come costruzione culturale – necessariamente in progresso – che attribuisce valore e autorità a saperi e pratiche conserva-te creativamente. Con attente politiche di sviluppo e mirati progetti di formazione per qualificare abilità e competenze, restaurare siti e botteghe abbandonate, proprio come si fa con le opere d’arte, concorrendo in tal modo ad un rilancio anche sociale e paesaggistico del territorio.