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La Capanna Lepina: custode di storia e identità del territorio Lepino

La capanna lepina ha visto negli ultimi anni cambiare notevolmente il proprio statuto. Da simbolo del “cattivo passato” – inteso come passato di povertà economica e indigenza scolastica, sanitaria, culturale, ecc. – la capanna sembra oggi stravolgere a proprio favore i sentimenti delle comunità che in passato le hanno costruite ed abitate per giungere a costituirsi quale elemento identitario forte, potente bandiera attorno la quale immaginare appartenenze, tradizioni, radici, origini. Che la capanna sia stata “sdoganata” lo dimostra un sempre più massiccio interesse mostrato nei suoi riguardi da studiosi, amministrazioni, enti culturali e del turismo, ma è soprattutto palesato dalla facilità con la quale i nipoti e i figli dei “capannari” mostrano foto, raccontano di averci “anche dormito dentro” e vanno nostalgicamente a ricercarne tracce “archeologiche” per montagne, ad ammirarne ricostruzioni nei musei locali o a proporne essi stessi. Girando per i Lepini può capitare infatti di incontrarne di nuova fattura e in bella mostra nel giardino di casa come dependance o gazebo, oppure di imbattere in fantasiose e variegate reinterpretazioni di ex capanne ora declinate a ripostiglio.

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Originariamente, la capanna aveva funzione di riparo per pastori e contadini che la utilizzavano tanto a scopi abitativi (in determinati periodi dell’anno, ad esempio per la transumanza o la vendemmia), quanto per il ricovero degli animali o il riparo degli attrezzi e materiali da lavoro. Essa aveva forma genericamente conica ed era costruita con una base di pietre accatastate a secco fino ad un’altezza di un metro, un metro e mezzo; su tale macera, che fungeva da basamento, venivano sistemati “a piramide” dei pali sui quali erano assestati fasci di strame (la stramma) o stoppie. Il pavimento interno era generalmente di terra battuta o acciottolato e in quelle per uso abitativo si trovavano, oltre al focolare centrale, pochi, essenziali pezzi d’arredo, tra i quali è divenuta ormai nominatissima la lettera (pagliericcio per dormire, simbolo sì della precarietà delle condizioni). Alla capanna si trovavano generalmente associati altri elementi insediativi, quali recinti, forni, pozzi, terrazzamenti ecc., e questo si verificava soprattutto quando le capanne erano raggruppate in insediamenti più vasti.

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Per lo sguardo contemporaneo, la capanna incarna un possibile dialogo uomo/natura ed è ecologicamente corretta nel suo offrire riparo costituendosi dei soli materiali che il territorio locale offre (pietra, bastoni e strame) e senza troppo invadere il suolo. Tuttavia, proprio in virtù del suo incidere a fior di pelle la terra e del suo essere tirata su con materiali deperibili o riciclati per altri scopi (es. le pietre per recinzioni e/o terrazzamenti), è ora difficile rintracciarne di originali. E allora, dove sono rintracciabili oggi, sui Lepini, le capanne tradizionali? Una ricerca interdisciplinare condotta dall’EtnoMuseo Monti Lepini di Roccagorga e dal Museo Archeologico di Priverno, ha portato ad una prima importante individuazione di sette agglomerati insediativi localizzati nella valle interna dei Lepini, tra la parte settentrionale (ai confini con la provincia di Roma) e l’estremo sud dei Lepini stessi. Si tratta di quelli che il gruppo interdisciplinare, formato da antropologi, archeologi e architetti, ha convenuto chiamare “villaggi” e descrivibile come insieme significativo di capanne ravvicinate al punto da costituire un sistema sociale autonomo. I villaggi censiti sono: Le Campore di Cori; Valle Pera di Norma; I Ruschi di Bassiano; Valle La Caccia e Valle Nardi di Roccagorga; Campofolle e Cerreto di Sonnino. Impossibilitati in questa sede a descrivere tutti e sette i villaggi oggetto di ricerca, si accennerà molto brevemente e a titolo esemplificativo ad uno di essi. Così chi giungesse a Cori, in località Le Campore, troverebbe iscritti sul terreno i resti di un villaggio di capanne suddiviso in due agglomerati adiacenti, uno di quali ormi bcompletamente abbandonato. Quello più a nord, inglobato in un terreno privato adibito a uliveto, si compone di capanne più o meno ben conservate, attualmente utilizzate come ripostigli (e dunque risistemate e ricoperte di pietre o lamiere al posto della paglia). Il pastore che, negli anni Venti del secolo scorso, costruì sul suo terreno le capanne, era un capraio corese e questo spiega la conformazione dell’insediamento così come in buona misura ancora oggi si può vedere. Accanto al gruppetto di quattro capanne di pianta circolare e al pozzo, infatti, è ben riconoscibile la caprareccia, capanna di forma allungata e utilizzata per il ricovero delle capre. Per l’occhio allenato a leggere tali forme insediative, la forma delle stesse è tutt’altro che secondaria: ti dice quale era destinata ad usi abitativi, quale a spazio per gli animali, quale come ripostiglio ecc. E così, spostandosi di qualche decina di metri, nell’agglomerato più a sud, anche solo a uno sguardo veloce si capisce che ad utilizzare quelle capanne furono degli allevatori di maiali. Degli undici basamenti di pietra ormai “spallati” e semi ricoperti di rovi, ben quattro hanno una forma ellittica e piuttosto allungata, forma che i pastori locali interpellati quali testimoni diretti, leggono inequivocabilmente come porcarecce, capanne utilizzate per il ricovero dei maiali.

Se tali tracce incise sul foglio dei monti Lepini ricostruiscono idealmente la mappa degli insediamenti, per vedere come effettivamente la capanna era costruita sarà più utile visitare i musei che ne ripropongono degli esemplari. La prima apparizione espositiva di una capanna è stata nell’EtnoMuseo Monti Lepini di Roccagorga, inaugurato nel 1999. Come sempre accade quando si ha a che fare con problemi identitari, è nella differenza che si costruisce l’identità. La capanna dovette colpire molto il gruppo di ricercatori esterni alla comunità lepina incaricato di studiare la cultura locale, al punto che decisero giustamente di accordargli nel museo un posto di rilievo. Forse altrettanto giustamente alcuni studiosi locali si mostrarono perplessi: dopotutto nella capanna “la gente c’ha vissuto e sofferto”. Nonostante tali iniziali indugi, i tempi erano maturi perché la riflessione venisse convenientemente aperta e così, in linea anche con politiche culturali di tutela del territorio e riscoperta delle “tradizioni”, si è giunti a oggi con la capanna ormai assunta a simbolo di un passato recente da esibire come tratto culturale peculiare, contro il rischio di appiattimento e uniformità omologante.Oggi si possono annoverare altri due musei che ripropongono la capanna e i due casi sono tanto più interessanti se si considera che a realizzarli sono stati gli orgogliosi figli di padri partecipi della cultura agro-pastorale evocata. Il Museo della pastorizia “Le Capanne” di Carpineto e il Museo Lepino della civiltà contadina di Sezze Scalo offrono così, accanto alle ricostruzioni degli elementi abitativi e alla ricchezza degli oggetti, il dono superbo dei racconti dei realizzatori, attraverso i quali gli spazi si popolano e gli oggetti si animano, acquistano densità e vita essi stessi – mentre attraverso le fantasie dei visitatori un mondo è richiamato e per ciò stesso sottratto all’oblio. Una delle storie, infine, che capita spesso di sentirsi raccontare girando per i Lepini, è che nello spazio dove un tempo sorgeva la capanna, oggi si erge la casa e, talvolta, la baracca. A proposito di quest’ultima ci pare di poter provocatoriamente affermare che possa essere considerata come l’erede postmoderna della capanna. Senza voler qui tessere l’elogio della baracca, si vuole segnalare che il fantasioso assemblaggio di materiali offerti dall’ambiente circostante (vecchie porte, reti sfondate, cancerogeni e “vietati” pannelli di eternit, lamiere arrugginite, ecc.) ricalca le poetiche e pratiche del riciclo e del risparmio alla base della realizzazione delle capanne – con esisti estetici, in alcuni casi, tutto sommato neanche così disprezzabili. Certo, in un mondo discarica i materiali restituiti dall’ambiente non sono minimamente paragonabili alle ben più ecologiche pietra e paglia della capanna (che rimane, è sottinteso, la nostra preferita), ma per sopravvivere occorre fantasia e l’interesse per il passato è vacuo se non attrezza per il presente e, non si sa mai, per il futuro.

di Sinopoli Francesco e Campagna Laura 

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