Alla scoperta dell’Etnomuseo di Roccagorga
L’EtnoMuseo ha preso sul serio la proposta di rendere il museo allo stesso tempo un luogo sacrale e uno spazio di sperimentazione e discussione, ove mettere in scena la sopraggiunta crisi nelle fonti di legittimazione e di autorità e il farsi problematica e rinnovata dell’istituzione museale. Così facendo l’EtnoMuseo è divenuto un esempio tra i più segnalati di museografia riflessiva interessata, per un verso, a dar conto del processo di costruzione dell’oggetto patrimoniale, nel mentre lo mette in scena, e, per altro verso, ad inscrivere nell’allestimento estetiche locali e etiche di rispetto e di collaborazione verso la comunità rappresentata. Il fine evidente è stato di rendere protagonisti soggetti da sempre estranei al contesto museale. L’EtnoMuseo si è messo al servizio delle comunità locali sia in virtù della strategia di ascolto attivata con la ricerca etnografica sia con la realizzazione di laboratori didattici, mostre ed eventi che hanno avuto per scopo proprio il diretto coinvolgimento della gente lepina nell’opera di conoscenza e autorappresentazione. Un esempio è il grande ritratto di Roccagorga – oltre 3000 persone in posa con sfondo la bella piazza barocca – realizzato nel 1992 e ripetuto di recente il 15 luglio 2007 per documentare continuità e differenze, assenze e volti nuovi nei cambiamenti intervenuti. Un diverso dispositivo è la Valigia dell’EtnoMusicologo, strumento efficace di una didattica itinerante.
L’EtnoMuseo nasce dalle interpretazioni da parte dei ricercatori (in particolare Antonio Riccio, Emilio Di Fazio, Donatella Occhiuzzi) delle riflessioni dei Rocchigiani sulla loro vita, sulla loro storia: è un esperimento nella ricostruzione di un’identità comunitaria, un percorso nella cultura locale per consentire di riflettere su come siano cambiati nel Novecento sentimenti, abilità, stili di vita e senso dell’appartenenza. La ricerca etnografica, iniziata agli inizi degli anni 90, si è focalizzata sul modo locale di sentirsi uniti e protagonisti degli abitanti di Roccagorga, sul gioco interno di costruzione e di modellamento della loro forma di vita. Volevamo capire in quali modi la memoria collettiva fosse selezionata, la tradizione costruita, l’interpretazione locale della modernità alimentata e resa manifesta in forme ed espressioni particolari. Ci interessava rispondere con risorse locali alla domanda “A cosa somiglia un’identità culturale?”. Un invito a svolgere indagine e convocare metafore in prevalenza visive per riflettere su “che cosa significa sentirsi di Roccagorga? ”, e dunque sulle logiche culturali e sui dispositivi sociali che fondano localmente il senso di identità, la percezione di essere una comunità. Il museo è venuto così soprattutto a dare rappresentazione alle sensibilità, alle interpretazioni locali. Ha scelto di indurre nel visitatore esperienza di storie, emozioni relazionali, competenze e saperi situati, che sono lì, a Roccagorga, pertinenti e non altrove (es. l’Eccidio del 1913), e prefigurato un allestimento rivolto all’immaginario e pensato a misura delle mani esperte e sensibili di artigiani locali. Grazie alla documentazione multimediale la ricerca etnografica ha potuto esplorare e rappresentare il farsi del legame sociale, le modalità culturali attraverso cui viene radicata l’identità a luoghi, storie, costumi, i modi in cui si partecipa ad un ethos familiare slargato, si usano archivi della memoria a disposizione nei paesaggio, nel dialetto, si esibisce conflitto.
L’EtnoMuseo dà visibilità e rilievo all’opera con la quale stranieri e storici locali – attraverso ricerche sui i costumi locali, liriche in dialetto e illustrazioni di scene e bozzetti popolari – si sono collocati come fonti e garanti della tradizione comunitaria. Sempre l’allestimento mette in scena due emblemi dell’identità locale (la Conca e la Capanna).
L’Etnomuseo rende operativa la considerazione antropologica che le differenze culturali risaltano in modo più chiaro e trasparente quando si ha modo di ricondurle all’interno di uno scenario storicamente e spazialmente determinato di rapporti sociali, stili espressivi, mappe cognitive, campi simbolici, tratti della mentalità, e soprattutto azioni narrative. Anche quando l’EtnoMuseo si sofferma a descrivere tecniche di lavoro, o mette in scena oggetti il cuore va in direzione dei discorsi, dell’immateriale: le relazioni sottese alle pratiche, le convenzioni implicite, i modelli di rappresentazione, le forme dell’immaginario, i repertori narrativi, musicali. Un museo dunque che vuole documentare e farci fare in qualche modo esperienza di sensibilità, di stili di vita e di convivenza, di emozioni che sono qui validi e non altrove. L’EtnoMuseo offre così rappresentazione della cultura materiale in stretta connessione con saperi, relazioni e mentalità di coloro che hanno prodotto e usato tali artefatti. Raccorda nell’esposizione le conoscenze alle abilità, ai corpi, alle emozioni situate, ai temi dell’immaginario locale. Suggerisce l’idea che l’habitus locale, quel saperci fare, possa essere considerato un patrimonio culturale da valorizzare poiché identifica Sale interne e particolari dell’allestimento la capacità di essere protagonisti attivi del mondo circostante, di modellare e far un uso sociale del corpo in sintonia con le risorse dell’ambiente. E’ quella parte della cultura vissuta, espressa in gesti dalla lunga durata storica, in modi e saperi del fare, in oggetti modellati da stili, in sensibilità interpretative, in risorse interpretate e manipolate. L’allestimento trova un suo punctum nella “conca di rame”, fino a poco tempo fa usata per portare l’acqua. Ne documenta modi di fabbricazione, tecniche femminili di trasposto, posture del camminare e modalità del pettinarsi adeguate, forme di socialità e divisione di genere del lavoro.
L’EtnoMuseo propone di osservare attentamente le modalità di costruzione delle capanne lepine per cogliervi storie familiari, memorie generazionali, capacità di costruzione e interpretazioni del paesaggio e suggerisce una prospettiva di comprensione delle pratiche musicali lepine che fa perno sempre sul concetto di habitus, di abilità manipolativa e interpretativa appresa e continuamente rinnovata. Lo si evince dal contesto pastorale “ricostruito”, dall’evidenza accordata nelle sagome ai gesti, e nel video alle modalità di costruzione e di suono. Per realizzare gli strumenti effimeri è necessaria, oltre alla conoscenza del territorio, una ‘padronanza’ della flora locale, dei suoi ritmi e delle sue manifestazioni stagionali. L’allestimento ha l’ambizione di lasciare immaginare per tracce un “paesaggio sonoro” ricco e denso.
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