Francesco Maria Cifarelli
Lo stato delle conoscenze alla fine del XVIII secolo.
Prive, al contrario di Palestrina o Tivoli, di monumenti (o nel caso di Priverno di luoghi) nobilitati dalla menzione delle fonti o, come la loro vicina Cori[1], di architetture che, per precise caratteristiche, fossero capaci di attrarre l’attenzione dei grandi umanisti già all’epoca della rinascita dell’interesse per l’antico, la consistenza monumentale della gran parte delle città ‘pelasgiche’ dell’area lepina giaceva, alla fine del ‘700, in un cono d’ombra pressoché totale. Illustra bene questo stato di fatto il caso di Segni. Fra il ‘400 e il ‘700 la città compariva nelle digressioni dei diversi eruditi in brevi resoconti, composti da poche informazioni codificate già nei primi lavori e riprese in maniera sostanzialmente analoga nei successivi: si trattava della ripetitiva giustapposizione di alcune aneddotiche notazioni quali quella riguardante il suo vino, celebre nelle fonti antiche, e di altrettanto pochi riferimenti storici, per lo più incentrati sulla colonia di Tarquinio il Superbo e sulla paretimologia del suo nome antico, Signia, fatto derivare dalle insegne piantate sul monte dai soldati del re che, con il loro campo invernale stabilito sulla cima del monte, avrebbero dato origine alla città[2]. Questo già in Biondo Flavio, nella sua Italia illustrata scritta tra il 1448 e il 1458, pubblicata per la prima volta nel 1474 e tradotta in volgare da Lucio Fauno nel 1544[3]. Altrettanto nella Descrittione di tutta Italia dello storico bolognese Leandro Alberti, del 1550[4]: qui, nell’impostazione generale del lavoro per itinerari redatti seguendo i tracciati delle vie antiche, la città di Segni, non ritenuta per alcun motivo meritevole di una lunga e faticosa deviazione, «… scorgesi …» dalla via Latina. Un solo elenco delle fonti che la riguardano è quello dato dal Cluverius nel 1624[5], mentre è di nuovo una succinta nota, ancora una volta limitata al solito vino, quella dedicatale da Athanasius Kircher nel 1671[6]. In tale contesto resta isolata, certamente in quanto rimasta solo a livello di manoscritto, sia pur subito acceduto alla Biblioteca Casanatense, l’opera di uno studioso locale, Gregorio Lauri. Presule, membro di una storica famiglia signina, vescovo di Ascoli Piceno, il Lauri[7] dedicò un’ampia parte del suo scritto al panorama ‘archeologico’ della città antica, offrendone una completa descrizione non solo delle mura, innalzate «… di smisurate pietre…», ma anche di altre strutture caratterizzate da tecniche quali l’opera reticolata, delle iscrizioni allora note e finanche, con notazioni di lucidità a volte sconcertante, della sua urbanistica di età romana. Solo dal punto di vista della documentazione epigrafica, alcune, poche nozioni erano accedute nei maggiori circuiti ‘bibliografici’ già dal XVI secolo, come ci testimonia la conoscenza da parte del Bembo dell’iscrizione CIL, X 5961[8] o, in maniera più ampia, di un buon numero di iscrizioni da parte del Ligorio[9]. L’avvio di una più massiccia trasmissione di dati, e i metodi di tale trasmissione, ci sono invece chiariti, per la seconda metà del ‘600 da un passo di Gregorio Lauri[10], che ci informa del fatto che le principali iscrizioni della città erano state copiate dal nonno, Ottavio, e da questi inviate a Roma al Card. Barberini per la summa che proprio in quegli anni andava componendo il Fabretti[11]. Dallo stesso Fabretti, o direttamente dal Lauri, deriva anche la menzione delle epigrafi della città presenti nell’Italia Sacra di Ferdinando Ughelli[12], nell’edizione del 1717-1722, dove sono ricordate: «Plures antiquae iscriptiones in hac spectantur Civitate, inter quas sequens Hadriani Imp. olim in Cathedrali effossa legitur apud DD. Lauros.».
In tutto questo, per i monumenti della città di Segni mancava ancora, totalmente, qualsivoglia tipo di documentazione iconografica. E tale lacuna accomunava Segni agli altri centri lepini.
Ad eccezione del già ricordato caso di Cori, è possibile oggi citare solamente i disegni su Sezze editi dal Corradini[13] e quelli riguardanti Norba realizzati nei primi decenni del ‘700 dal Volpi[14], la cui sommaria caratterizzazione, sintomo di una evidente disattenzione verso la resa puntuale delle caratteristiche costruttive e, specie per il Corradini, finanche architettoniche dei monumenti[15], ne rendeva quasi nullo il valore documentario (fig. 1). Le grandi cinte in opera poligonale erano, a tutti gli effetti, pressoché sconosciute. Ciò non deve stupire, pensando proprio alla pochissima attenzione fino allora prestata a quelle pur monumentali costruzioni che, certamente più di tutte, dovevano caratterizzare il paesaggio dei borghi di una larga parte dell’Italia centrale. Parleremo più diffusamente fra poco di L.Ch.Fr. Petit-Radel e della presentazione delle sue teorie, avvenuta fra 1801 e 1804 e che diede il via alla scoperta delle mura poligonali di queste regioni. Possiamo però fin d’ora rivolgerci ai suoi ultimi scritti, in particolare alla sua ultima lettera del 1834 e al volume postumo del 1841[16], per apprezzare quale fosse lo stato di conoscenza di questo tipo di costruzioni alla fine del ‘700: in questi due lavori, quale premessa alla storia delle sue ricerche, egli infatti offre una breve ‘storia degli studi’ sulla questione, per mostrare il quadro bibliografico a lui disponibile a partire da Ciriaco d’Ancona fino al momento della sua prima «découverte d’un monument de ce gente». Le osservazioni relative a strutture in opera poligonale allora a disposizione del Petit-Radel provenivano così solamente da «vingt à vingt-cinq voyageurs», fra i quali, limitandoci a coloro che avevano menzionato monumenti di regioni della penisola, possiamo riportare: Leon Battista[17] Alberti, nel 1498, per le mura di Ameria; il Cluver, nell’Italia antiqua del 1624, che nominava le mura della città vecchia del Circeo; il Casali, nel suo De veteribus christianorum ritibus del 1644, che riportava notizie provenienti da fonti locali quali un vescovo di Alatri, Vitrici; il Fabretti, che riportava nel suo De columna Trajani del 1683 un disegno di un muro di Alba Fucens; il Volpi, che nel Latium Antiquum assegnava ai Goti le mura di Cori; il Galiani, traduttore di Vitruvio nel 1757, che definiva le mura di Fondi come corrispondenti all’opus incertum vitruviano, secondo un’equazione poligonale-opus incertum alla quale si allineava anche Piranesi nelle Antichità di Cora, del 1764; il Winckelmann infine, che nel suo Obrevations sur l’architecture des anciens (è citata la versione in francese) del 1768 citava di nuovo Fondi, assieme ad Alba Fucens[18]. Inoltre, in tali poche e fugaci menzioni le grandi murature in opera poligonale non sembravano quasi mai fatte oggetto di discussione (fig. 2). Nessuno degli autori da lui ricordati, lamenta il Petit-Radel, aveva ad esempio riconosciuto in queste costruzioni quelle che vengono dette da alcuni autori antichi ‘cyclopéenne’, e nessuno, come vedremo farà lui, aveva messo queste in rapporto con il popolo dei Pelasgi e con l’origine della colonizzazione greca. Su entrambe le questioni il Petit-Radel affermava il vero. Per il primo punto, si deve ricordare che tali strutture, secondo una linea interpretativa forse nata con il Galiani ma avallata dall’autorità di personaggi del calibro di Winckelmann, Caylus e Piranesi, erano nel ‘700 credute identificabili con l’opus incertum vitruviano. Altrettanto originale l’aggancio con i movimenti di colonizzazione greca, e in particolare con i Pelasgi. Anche altri studiosi, correttamente citati dal Petit-Radel, avevano in altre occasioni tracciato più generiche rotte verso la Grecia[19]: fra questi il Petrini[20], che nel 1795, parlando delle strutture in «smisurati macigni poligoni irregolari» del santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina, postulava una loro pertinenza al popolo dei ’Dorici’. Per quel che riguarda i Pelasgi invece, Pierre Pinon segnalava il fatto che problemi legati alla presenza di questa popolazione erano già stati sollevata nella prima metà del ‘700 da un altro francese, il Bourguet: tale lavoro tuttavia verteva su basi linguistiche, attribuendo egli a quel popolo le tavole Eugubine, e non conteneva riferimenti al 36 le mura poligonali[21]. Ritornando al nostro tema delle città Lepine dunque, nella documentazione citata dal Petit-Radel come proprio ‘punto di partenza’, e ad eccezione ancora una volta di Cori, nessuna di esse sembra ancora presente. E, vale la pena di ribadire, sembra che una storiografia locale di stampo ancora seicentesco, che interessava la gran parte dei centri Lepini, non fosse per motivi diversi capace di circolare adeguatamente[22]: nel caso del Lauri, il cui manoscritto era peraltro a Roma, la completa descrizione dei muraglioni signini «costrutti di smisurate pietre le quali non hanno figura certa et uniforme tra loro, essendo altre quadre, altre angolari, altre longhe, ma connettono si bene l’una con l’altra per esser lavorate tutte a scalpello, che senza calce, o altra mistura con pozzolana … formano saldissime malte, e quasi all’eternità fabricate..», che pur poteva non risultare di interesse agli altri studiosi dell’epoca, non sarebbe certo dovuta sfuggire agli occhi scrupolosi, e certamente avidi di notizie di tale tipo, del Petit-Radel[23].
Louis Charles François Petit-Radele la questione pelasgica.
Su questo stato delle conoscenze, il dibattito innescato dalla ‘questione pelasgica’ porterà i centri della regione lepina, e più in generale quelli del ‘Lazio del Calcare’[24], al centro dell’attenzione di un ampio movimento di studi di portata ‘globale’[25] che determinerà il formarsi di un vastissimo corpus documentario tale da fissare un’immagine archeologica di queste città capace di sopravvivere in taluni casi fin quasi ai giorni nostri. Il problema è ormai ben noto, soprattutto grazie al lavoro di Pierre Pinon, che ne ha tracciato le tappe principali[26]. Quel che qui si vuole sottolineare, focale per il tema di questo volume e che invece nel lavoro del Pinon rimane in ombra, è il meccanismo che detterà il progressivo formarsi, sotto la spinta del dibattito, di quell’enorme mole di documentazione che segnerà nella realtà delle cose la ‘riscoperta’ dei patrimoni monumentali dei centri Lepini: una riscoperta dettata da precisi fini di documentazione scientifica e i cui soggetti saranno di volta in volta dettati dalle diverse tappe della discussione. E dunque, anche per quanto detto sopra, ci soffermeremo di più su alcuni momenti di questa vicenda, in particolare sulle tappe inziali dell’interesse del Petit-Radel per le strutture in opera poligonale e su alcuni aspetti successivi del dibattito, selezionati in quanto capaci di rappresentare momenti di ulteriore approfondimento di singoli temi e, conseguentemente, di parallela crescita delle necessità documentarie. Le vicende della rivoluzione francese spingono il Petit-Radel (fig. 3) a muoversi alla volta di Roma nell’ottobre 1791, dove, tramite il Card. De Bernis, ottiene da Pio VI l’ingresso in ‘un’abbazia’ nella quale diviene sottobibliotecario e direttore del giardino botanico creato dall’abate Monsacrati. Coltiva la botanica, ma studia anche gli storici antichi: tuttavia, dicendo che essi si occupavano «trop exclusivement des hommes, et pas assez des choses», mostra una passione per i «grands monuments de pierre», puntando in particolare ad approfondire le caratteristiche delle costruzioni della città di Roma in confronto con quelle delle città vicine, e a individuare una connessione fra queste e la storia dei «divers peuples étranger leurs fondateurs, suivant les récits de l’histoire». A Roma entra in contatto con il circolo gravitante attorno all’abate Monsacrati, dove stringe legami con il duca Francesco Caetani, ma anche con il cavaliere d’Agincourt o con cultori delle «sciences exactes» quali l’abate Scalpellini. L’episodio che da il via al tutto è dato da un viaggio effettuato nel 1792 al «monte Circello», avente quale scopo primario la raccolta di alcune piante rare a Roma ma che il duca Caetani dice esistenti in abbondanza nelle sue proprietà. Un episodio descrive bene lo stato delle conoscenze ‘archeologiche’ e i veicoli di trasmissione delle notizie in quegli anni: all’accenno del Petit-Radel dell’aura omerica di Circeii il duca Caetani risponde:
«Qui sait … si vouz n’y trouverez pas encore la demeure de la déesse, bâtie en pierres bien taillées jusqu’au poli, suivant Homére? Corradini a bien assuré, dans son Latium, qu’il n’en restait plus aucun vestige; mais j’ai ouï dire à des chasseurs qu’il exsistait des murs qui paraissaient bien plus anciens que ceux des Romains sur le plateau du pic culminant de la montagne..»[27]. Il Petit-Radel dunque parte per il Circeo (fig. 4), e lì trova le piante delle quali era alla ricerca proprio ai piedi di un «vieux mur», nel quale riconosce l’altare della dea. È questo il momento nel quale concepisce «le sujet du probléme historique qui depuis n’a pas cessé de m’occuper»[28] , la teoria che stabiliva un legame fra le costruzioni ‘ciclopiche’ e il popolo dei Pelasgi: le grandi strutture in opera poligonale, presenti con caratteri assai simili tanto in Italia quanto in Grecia e in Asia minore, altro non sarebbero state che le architetture militari dei Pelasgi, da ricondurre cronologicamente all’epoca della costruzione delle mura di Argo, Micene o Tirinto.
Si apre la prima fase della ricerca, che potremmo fissare negli anni del suo soggiorno romano, fra il 1792 e il 1800, nella quale è probabile che il Petit- Radel abbia avviato la sua raccolta di notizie. Alle indicazioni tratte dalla sua ‘bibliografia’ iniziarono probabilmente ad aggiungersi pian piano quelle provenienti dal suo giro di corrispondenza o ancora da segnalazioni orali, quali vedremo fra poco. Ma più di tutto egli stesso avrà aggiunto note e forse dei primi ‘documenti’ redatti di persona nel corso di escursioni nelle città vicine a Roma: di queste escursioni è notizia nel lavoro del Sansi[29], che peraltro parla di una gita effettuata dal Petit-Radel a Segni nella quale egli sarebbe stato in particolare attratto dalle rovine del tempio dell’acropoli. Dopo un solo accenno fatto all’amico e protettore Séroux d’Agincourt nel 1794, che aveva trovato un’accoglienza assai tiepida da parte dell’illustre erudito, la presentazione ufficiale della sua teoria avviene poco dopo il suo rientro a Parigi, prima il 19 marzo e poi il 6 agosto del 1801, di fronte alla Classe d’Histoire et de Littérature Ancienne dell’Institut de France, i cui membri, dubbiosi, lo invitano a continuare le ricerche. Due anni dopo la Classe de Beaux Artes, dopo averlo ascoltato di nuovo il 3 dicembre del 1803, nomina una commissione di tre membri, la quale a sua volta, con il dichiarato scopo di ottenere documentazione, suggerisce di inviare una nota all’accademia di Francia a Roma per mobilitare, a tal fine, i pensionnaires[30]: l’Institut de France recepisce quest’invito, e con un vero e proprio, per certi versi modernissimo, ‘Bando di Ricerca’ pubblicato nel Magasin Enciclopédique del 1804[31], che da qui chiameremo gli Eclaircissemens, da il via alla fase di ‘scoperta’ delle città Lepine. Gli anni fra il 1801 e il 1804 vedono probabilmente una prima accelerazione nella raccolta di documenti, provenienti in particolare dall’attivarsi massiccio di quella rete di corrispondenti che, venuti a conoscenza della rivoluzionaria teoria, iniziano a contribuire con segnalazioni[32]. Su tali basi il francese sarà peraltro stato in grado di organizzare, secondo un metodo che applicherà ben più massicciamente in seguito[33], i primi modelli dimostrativi, utili alle presentazioni iniziali della sua teoria, che presuppongono la disponibilità dei primi documenti visivi[34]. L’esatto stato della documentazione al 1804 è d’altronde riportato nel bando degli Eclaircissemens. Qui, dopo una ben organizzata disamina dello stato della questione, che comprende un’ampia sintesi della teoria del Petit-Radel, e una serie di notazioni legate ai principali aspetti che sembravano bisognosi di chiarimenti, la Classe de Beaux Artes, valutando la necessità di «… procéder avec la maturité qu’il convient… dans l’examen d’une question de cette importance…», decide di ricorrere alla comunità scientifica dell’epoca, ponendo le famose tre questioni sul problema: in quali città d’Italia si trovino le cinte in opera quadrata; in quali città d’Italia si trovino invece le cinte in opera poligonale; quando le due costruzioni si trovino riunite, qual è la loro disposizione reciproca. Subito dopo, gli estensori del bando riportano una serie di indicazioni destinate a indirizzare le ricerche di chi si fosse voluto impegnare in tale lavoro; oltre a precisi indirizzi di metodo su cosa e come si dovesse documentare, accompagnati da nozioni pratiche fra le quali quelle legate alla morfologia e alla natura geologica dei suoli d’Italia, vengono a tal fine allegate alcune tavole esplicative sui vari tipi di costruzioni in questione e una lunga lista di città nelle quali «… des voyageurs disent avoir observé la costruction en pierres polygones irrégulière…». Le tavole[35] mostrano assai bene l’approssimativo stato di conoscenza della realtà archeologica di tali strutture, nonché la pochezza dei documenti realmente disponibili o ritenuti dagli estensori utilizzabili: per illustrare l’aspetto delle «… enceintes formées de grands blocs ou quartiers de pierre de figure polygone irreguliere…» viene fornita una figura riferita a un muro di Cosa (fig. 5), nella quale spicca il fantastico gioco dei giunti, assai distante dalla realtà. L’elenco delle città comprende centri più disparati, molti dei quali privi di qualsiasi rapporto con strutture in poligonale.
Ma più di tutti parlano dello stato della conoscenza, ancora per gran parte legato a una documentazione descrittiva attinta a fonti assai disparate e delle quali comunque era ritenuta necessaria un’attenta verifica, le specifiche di alcuni di questi centri, dietro le quali possiamo certamente immaginare la collezione di notizie raccolta negli anni dal Petit-Radel: per Norba ad esempio si richiedono dettagli sulle porte, sulle torri e sulle «… vestiges d’un temple rond avec des niches…»[36]; per Sezze[37] di disegnare il monumento che chiamano Torre di Saturno, il tempio di Saturno, le terrazze adiacenti l’Aerarium, l’anfiteatro, il tempio di Ercole e la terza cinta della città dove si trova la chiesa di San Rocco; per Priverno, addirittura, si chiede di disegnare, oltre alle rovine dette di «Piperno vecchio», anche la porta detta «Campagnola» di Priverno nuovo, per verificarne l’antichità[38]; per Alatri, di fare un disegno della porta della «… citadelle. Existe-t-il des Hermès sculptés sur les murs? ». Dunque, possiamo sintetizzare che, oltre ai diversi monumenti della Grecia già noti a quel punto della ricerca, la documentazione allora disponibile per la penisola fosse composta in massima parte da descrizioni di viaggiatori, dalla bibliografia locale nota o da semplici segnalazioni, il tutto difficilmente verificabile causa la quasi assoluta penuria di corrispondenti documenti iconografici redatti con ben precisi criteri di ‘oggettività’. Nella fattispecie delle città della regione Lepina, mancava quasi totalmente una precisa e organica documentazione delle attestazioni di strutture in opera poligonale: questo nonostante i disegni di Piranesi a Cori, curiosamente non considerati forse proprio perché ritenuti troppo poco ‘scientifici’, mentre quelli di Corradini per Sezze, assolutamente ‘irreali’, assieme alla più attenta veduta di Norba edita dal Volpi, anche se conosciuti, non erano certamente utilizzabili, in quanto in entrambi i casi le strutture in opera poligonale ivi raffigurate erano caratterizzate con una generica campitura a rettangoli giustapposti, la quale, sintomo di un assoluto disinteresse verso la tecnica costruttiva in essi impiegata, poteva al massimo rendere l’idea della classica opera quadrata. Il bando degli Eclaircissemens, inteso come più evidente segno del generale interesse verso le strutture ‘pelasgiche’ sollevato dal dibattito, può così essere considerato come la causa prima, prettamente scientifica, della scoperta dei grandi monumenti in opera poligonale delle città del Lazio meridionale e della Sabina: andrà ancora una volta sottolineata l’impostazione metodologica di questo documento, che vide una teoria storiografica sottoposta a verifica archeologica mediante un sistematico lavoro di ricognizione e documentazione sul campo di una ben precisa classe di monumenti[39]. Una scoperta, dicevamo, il cui merito è riconducibile a pochi pionieri: in particolare, se al Simelli, inviato dal Séroux d’Agincourt, spetta il merito dell’esplorazione nelle città sabine del Lazio settentrionale e dell’Umbria, la grande opera di documentazione delle sconosciute cinte del ‘Lazio del Calcare’, fra le quali quelle delle nostre città dei monti Lepini, avverrà negli anni compresi fra il 1805 (o meglio fra il 1807[40]) e il 1809 per merito precipuo dell’americano John Izard Middleton41], dell’irlandese Edward Dodwell[42], e della nostra Marianna Candidi Dionigi[43], tutti, va detto, fermi sostenitori della tesi ‘pelasgica’. Non si tratta dunque degli ultimi epigoni del Grand Tour, come pure spesso si è sentito dire, ma di «savants»[44] impegnati in una precisa opera di documentazione archeologica. Con l’utilizzo delle migliori tecnologie dell’epoca, fra le quali le camere chiare e oscure, e con minuziose misurazioni dal vero tramite le quali venivano verificate e corrette le immagini così ottenute, essi produrranno un numero impressionante di documenti (non dunque ‘vedute’ ma veri e propri ‘rilievi’) che il dibattito scientifico chiedeva di grande fedeltà (fig. 6-7)[45]. Nelle edizioni dei loro lavori (e in questo la nostra Marianna Dionigi batté tutti sul tempo, dando alle stampe il celebre Viaggio già nel 1809!) tali documenti erano accompagnati, e accompagnavano, minuziose descrizioni dei monumenti oggetto di studio: per Segni, ad esempio, nasce con Middleton la consuetudine di presentare le mura della città partendo da Porta Saracena e proseguendo lungo il circuito in senso orario, con la descrizione del tempio di Giunone Moneta a far da chiusura al tutto. La grande diffusione del bando ebbe una notevole rispondenza in numerosi ambienti, primo dei quali, certamente, lo stesso circuito facente capo all’Institut de France[46]: già nel 1807 due giovani architetti francesi, F. Debret e H. Lebas, probabilmente in qualche modo incoraggiati dal grande Pierre- Adrien Paris[47], sono in Italia intenti a intraprendere ricerche sulle città ‘pelasgiche’[48], producendo per Segni un disegno di porta Saracena che, per livello cronologico di esecuzione e anche se rimasto inedito, può ben essere considerato quale parallela e indipendente prima documentazione di questo monumento rispetto agli analoghi documenti prodotti dal Dodwell, dal Middleton e, diremo fra poco, dal Micali. Ulteriore cassa di risonanza degli Eclaircissemens fu il fatto che tale bando venne rilanciato da altri prestigiosi istituti: ad esempio, sappiamo ancora dal Petit- Radel che nello stesso 1804 l’Accademia dei Lincei a Roma distribuì un Invito agli amatori delle belle arti e delle antichità volto a un’analoga raccolta di documentazione, destinata questa ad essere indirizzata all’abate Scarpellini, anch’esso come detto partecipe dei circoli romani facenti capo al Caetani[49].
In tale situazione, il successo dell’operazione e il conseguente immediato arrivo di un’ampia mole di documenti accese il dibattito, che vide la comunità dividersi fra sostenitori del francese, fra i quali il Dodwell, e coloro che lo criticavano. Sul dettaglio di una discussione aspra e puntigliosa rimandiamo ancora, per necessaria brevità, al lavoro di Pierre Pinon[50]. Citeremo qui solo alcuni episodi, utili a sottolineare ulteriori aspetti del formarsi della documentazione archeologica sulle città ‘pelagiche’. Anche se gli italiani parteciparono poco a un dibattito che sembra essere stato sostanzialmente franco-tedesco, una delle prime voci critiche venne proprio dal Micali. Egli, in un breve passo del suo l’Italia avanti il dominio dei Romani[51] , respingeva con varie argomentazioni per le mura ciclopiche una sì alta antichità: a documento di tali strutture il Micali riporta una tavola della Porta Saracena a Segni, dovuta a un disegnatore italiano, l’Alippi, che per l’anno di edizione dell’opera, il 1810, partecipa di quel gruppo di raffigurazioni in gara per vantare, in maniera indipendente e parallela fra loro, il titolo di primo documento sulla città lepina[52]. Parallelamente, si alza la voce della scuola tedesca, quella che più tardi, con l’intervento del Gherard e poi del Bunsen, avrebbe messo la parola fine alla prima parte del dibattito. Nelle fasi iniziali, il compito di contrapporsi alla teoria del Petit-Radel toccò al Sickler, le cui dure critiche furono ospitate, con grande disappunto del primo, proprio in una rivista francese, il Magasin Encyclopédique: in sintesi, il Sickler[53] si mostrava fermo sostenitore della pertinenza delle strutture ‘ciclopiche’ ad età romana, riprendendo peraltro la teoria secondo la quale esse altro non erano che l’opus incertum di Vitruvio[54]. Un episodio della polemica condotta dal Sickler mostra assai bene come veniva impiegata la documentazione prodotta in quegli anni. Durante i suoi viaggi nelle aree interne del Lazio meridionale Marianna Candidi Dionigi[55], in uno dei suoi disegni su Ferentino, aveva infatti impropriamente riprodotto, alla base dell’avancorpo dell’acropoli della città, un inesistente poligonale della classica III maniera (fig. 8). Proprio la presenza di una tale struttura in un monumento firmato dai due censori Irzio e Lollio aveva fornito al Sickler un argomento molto forte a sostegno della pertinenza delle strutture in opera poligonale ad età romana, capace dunque di provare la fallacia della teoria del Petit-Radel. Toccò all’infaticabile Dodwell recarsi di nuovo in quella città ed effettuare un corretto disegno dell’avancorpo di Irzio e Lollio (fig. 9), offrendo così un momentaneo aiuto all’amico francese in grande difficoltà[56]: dove la vena artistica prendeva il sopravvento sulla nuda documentazione, potevano essere causati seri danni! Il dibattito fra il Petit-Radel e i suoi avversari, il Sickler fra tutti, si protrasse per alcuni anni, ma tanto la sostanziale ripetitività dello stesso quanto la mutata situazione politica seguita alla caduta di Napoleone determinarono un affievolirsi della discussione per gli anni successivi. Il Petit- Radel continuò ad occuparsi assiduamente della questione, registrando tuttavia per gli anni che vanno dal 1819 al 1829 solo l’arrivo di ulteriori documenti[57]. La discussione riprese vigore quando, con la nascita dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica a Roma, il suo primo direttore, Odoardo Gerhard, dedicò nel primo numero del Bullettino un ampio saggio al problema delle mura poligonali[58]. Aprendo il problema ad un’ampia prospettiva storica, il Gerhard mostrava come tali strutture fossero regolarmente presenti in centri la cui fondazione era riportata ad età romana, soffermandosi in maniera molto ampia su due città che le fonti assicuravano appartenere a fondazioni coloniali di età regia o alto repubblicana: Segni e Norba. Per tentare di rispondere a tali argomentazioni, il Petit-Radel chiese ancora una volta l’ausilio di nuovi documenti, che questa volta gli furono offerti da diversi pensionnaires dell’Accademia di Francia. E ancora una volta può essere interessante notare come la documentazione prodotta facesse riferimento ad aspetti del dibattito: la grande mole di disegni realizzati intorno al 1830 a Segni da personaggi del calibro dei fratelli Labrouste[59] e la presenza cospicua di documenti di Norba sembrano infatti dipendere proprio dalla necessità di rispondere alle critiche del Gerhard. A Segni, in particolare, viene ora per la prima volta documentata la Porta Maggiore e vengono redatte tavole con i dettagli del tipo di costruzione in opera quadrata di tufo (fig. 10) con la quale venne innalzata la grande porta gemina con tutto il rifacimento del fianco meridionale delle fortificazioni della città[60]. Tali dettagli consentirono al Petit-Radel, nei suoi ultimi lavori del 1834[61], di ribattere alle posizioni del Gerhard, affermando essere quelle in opera quadrata le strutture della colonia di età regia a Segni, e mantenendo in tal modo ai Pelasgi la paternità di quelle ‘ciclopiche’. Contemporaneamente, e nel mentre si registra la prima cospicua partecipazione italiana al dibattito, testimoniata dai lavori del Caracciolo e, ancor più, del Canina[62], alcune opere non più scientifiche ma dovute alla produzione di artisti segnano il torno di tempo nel quale il patrimonio monumentale delle città lepine, restituito al mondo dal dibattito archeologico, esce dal ristretto ambito dei «savants» per approdare in un più ampio ambito culturale. È il caso del dipinto del tedesco Weller, databile al 1831, che ritrae un festoso rientro di contadini a Segni per una Porta Saracena resa irriconoscibile dal fatto di essere raffigurata in visione speculare rispetto al vero e abbellita da simboli fallici presi dai monumenti dell’acropoli di Alatri63. Da questo momento in poi queste città dei monti a sud di Roma, prima d’ora assolutamente isolate, verranno visitate da artisti di diverse nazionalità, le cui opere inizieranno a restituire immagini di centri che il Grand Tour aveva lasciato sistematicamente da parte. Il Petit-Radel muore, quasi ottantenne, il 27 giugno del 1836[64]: un suo volume postumo del 1841, composto «… d’après les manuscrits de l’auteur…» raccoglie tutta la documentazione da lui raccolta per dimostrare la teoria che lo tenne impegnato per tutta la vita. Le teorie degli studiosi tedeschi ebbero tuttavia quasi subito il sopravvento, seguite ormai dalla gran parte di coloro che, dal Canina stesso al Fonte-a-Nive[65], vollero occuparsi più o meno direttamente del problema. La teoria pelasgica continuò tuttavia ad avere estimatori, in particolare fra una storiografia di sapore più marcatamente locale per la quale l’alta antichità delle mura ciclopiche costituiva spunto per un’affermazione di antica nobiltà dei centri d’origine. Toccherà a un’impresa archeologica italiana, condotta fra la fine del XIX secolo e i primi anni del successivo su un’altra città dei lepini, Norba, chiudere definitivamente la questione: ma questa è materia di un altro contributo del nostro volume.
NOTE
1 Si vedano per queste due città i saggi di D. Palombi e M. Cancellieri in questo volume.
2 Dalla fonte di Dion.hal., IV, 63.
3 Biondo Flavio 1542.
4 Alberti 1550.
5 Cluverius 1624.
6 Kircher 1671.
7 Lauri.
8 Per lo sviluppo e le fonti delle conoscenze epigrafiche della città si veda l’introduzione a CIL, X, alla p. 591 del volume.
9 Si tratta delle iscrizioni CIL, X 5961, 6885, 5968 e 5964: per la silloge epigrafica del Ligorio si veda Orlandi 2008, in particolare alla p. 192 per le iscrizioni di Segni.
10 Lauri, p. 156.
11 Fabretti 1702.
12 Ughelli 1717-1722.
13 Corradini 1705. Vedi la scheda nel Catalogo.
14 Volpi 1726, tavv. XXI e XXII. Vedi la scheda del secondo documento nel Catalogo.
15 Il problema della metodologia di rappresentazione delle architetture antiche fra sei e settecento è ben trattato in Barbanera 2010
16 Petit-Radel 1834, p. 356, con specifiche circa le singole strutture osservate dai diversi studiosi, e Petit-Radel 1841, pp. 59-60, quale premessa alla cronistoria degli eventi legati al dibattito pelasgico.
17 Leonardo in Petit-Radel 1834, p. 356; si tratta probabilmente di una confusione.
18 In tale excursus bibliografico sono poi particolarmente importanti, ai fini della possibilità di confronto, le parallele menzioni di monumenti della Grecia sulle quali il Petit-Radel poteva basarsi. Si possono nominare, fra gli altri ricordati dallo studioso francese: il Demonceax, che nota nel 1688 le rovine di Tirinto; la descrizione della Mura di Argo, Micene e Tirinto contenuta nel resoconto di viaggio del Fourmont del 1729; il diario di viaggio nella Troade di Lechevalier del 1782.
19 In Petit-Radel 1834, p. 356.
20 Petrini 1795, pp. 5-9.
21 Bourget 1735. In Pinon 2007, p. 282 e n. 904 viene posto il problema riguardo la mancata citazione del lavoro del Bourguet negli scritti del Petit-Radel: l’argomento non completamente pertinente trattato dal Bourguet giustifica a mio avviso tale mancata citazione, senza dover pensare a ‘gelosie’ riguardo la propria teoria che nel caso specifico non avrebbero avuto modo di essere. Sulla tradizione dei Pelasgi in Italia si veda, con l’ampia bibliografia relativa, Briquel 1984, in part. alle pp. XIV-XIX.
22 Questo almeno per lavori che non avevano raggiunto la dignità della stampa. Per un esempio di repertorio bibliografico dell’epoca può essere interessante la consultazione di Ranghiasci 1792, il cui anno di edizione coincide con l’avvio della ricerca da parte del Petit-Radel.
23 Lauri, pp. 173-175. Per molti aspetti analogo appare peraltro il caso del centro del Piano delle Civita ad Artena, allora denominata Montefortino. Nonostante alcune descrizioni del sito, sia pur assai brevi ma contenenti chiari riferimenti alle sue mura poligonali, apparissero già nell’opera di un altro storico locale (Serangeli, redatto fra il 1706 e il 1717 e rimasto anch’esso allo stato di manoscritto), attivo negli stessi anni di Corradini e Lauri (ma anche del corese Ricchi), o, già alla fine del ‘700, in quella di P.
Tommaso da Montefortino (Tommaso da Montefortino), il centro e le sue vestigia non entrarono nel circuito di conoscenze, anche solo marginali, tanto che nell’elenco degli Eclaircisse mens (Eclaircissemens 1804) Montefortino non è presente. Su Serangeli e il suo ruolo nella storia degli studi sul territorio dell’alta Valle Latina si veda della terra di Montefortino. Per la storia degli studi sulla città Quilici 1982, pp. 15-29, dove puntualmente si ricorda come la reale ‘scoperta’ della città si dovette all’avventurosa scalata del monte da parte di lord Bradley, che riportò le suggestive descrizioni del sito, probabilmente accompagnate da schizzi delle principali strutture, poi editi da William Gell (Gell 1834, I, pp. 196-201). Questo quadro generale pone il problema delle cause della mancata utilizzazione, o comunque della poca considerazione data ai vari autori di matrice locale, da parte del gruppo di discussione ruotante attorno alla questione pelagica: si può pensare, in attesa di una disamina più organica, a un insieme di cause, che vanno dalla poca diffusione di alcune delle opere, data dalla loro mancata edizione, alla poca fiducia prestata ad altri di quei lavori negli ambienti accademici quali l’Institut de France.
24 Secondo una definizione da me proposta per quelle città dell’ampia regione del Lazio orientale e meridionale interno connotate dalla presenza del calcare quale substrato geologico: in Cifarelli 2008.
25 Per la storia degli studi sul poligonale Lugli 1957, pp. 56-65, Quilici Gigli 2004 e, pur con riserve, Guadagno 2009. Per i singoli centri dell’area oggetto di questo lavoro si vedano: per Segni Cifarelli 1992, pp. 13-18; per Norba Quilici, Quilici Gigli 1988, pp. 233-234 e il contributo di S. Quilici Gigli in questo volume; per Cori la completa nota bibliografica in Palombi 2000, p. 92 n. 7 e, per aspetti diversi del problema, i contributi di D. Palombi, F. Moscardelli e I. Romano in questo volume; per il centro sul Piano della Civita ad Artena Quilici 1982, pp. 15-29; per Sezze, cenni in Bruckner 2000, p. 103.
26 Pinon 2007, pp. 268-304.
27 Petit-Radel 1841, pp. 16-17. È interessante notare come nel bando degli Eclaircissemens 1804, p. 456, nella parte nella quale vengono fornite le istruzioni di massima necessarie alla ricerca delle «ruines», si dice espressamente «Ce sont les chasseurs qu’il doit interroger…»: i cacciatori sono dunque coloro che maggiormente conoscono il territorio, e in particolare quelle «sommet des montagnes» sulle quali vanno ricercate, direttamente e senza fidarsi dei locali che assicureranno «qu’il n’y existe rien d’antique», le grandi cinte in opera poligonale.
28 La narrazione ‘diretta’ di queste fasi iniziali è in Petit-Radel 1841, p. 13-19.
29 Sansi 1849, pp. 16-17.
30 Sul rapporto fra l’Institut de France, l’Accademia di Villa Medici, il Prix de Rome e il soggiorno dei giovani architetti a Roma si vedano Pinon, Amprimoz 1988 e Jaques 1998.
31 Eclaircissemens 1804.
32 L’affluire di segnalazioni da un giro di corrispondenza legato ad am-bienti ecclesiastici o a circoli culturali quali quello del duca Caetani e più volte ricordato in Petit-Radel 1841, pp. 61 – 69, specialmente per abbondanza gli anni compresi fra la prima presentazione della sua teoria nel 1801 e il bando del 1804. Ricordiamo per esempio per l’anno 1802 la notizia portata all’Institut de France dal Torcia, bibliotecario del Re di Napoli, di 65 città dell’Italia dove erano attestate «..de vive voix..» costruzioni «cyclopéennes», o ancora, per l’anno 1803, l’arrivo di «..renseignements légalisés ..» dai vescovi di Alatri e di Ferentino sulle strutture in poligonale di quella città. Questo oltre alle numerose segnalazioni, molte di queste corredate anche da disegni, di monumenti ‘ciclopici’ della Grecia, menzionati ad esempio negli Eclaircissemens 1804, pp. 447-451.
33 L’esecuzione di modelli da parte del Petit-Radel avverà in maniera sistematica a seguito della documentazione prodotta negli anni successivi, a partire da quella del Middleton e del Dodwell: la ricca Galerie Pelasgique confluita nella biblioteca Mazzarina è minuziosamente descritta dal Petit-Radel, citando per ogni modello la fonte documentaria, in Petit-Radel 1841, pp. 129-323.
34 «..Des modèles en relief …. d’après des dessins trè-exacts..» sono infatti già nominati nel testo degli Eclaircissemens 1804, e dunque precedenti alla data di emissione del bando. Il formarsi iniziale della prima documentazione iconografica è percepibile dalle note redatte per gli anni 1801-1804 in Petit-Radel 1841, pp. 61-70: qui, assieme a una serie di notazioni per i centri della Grecia, allora assai meglio conosciuta, sono ricordati per il 1802 (ma in effetti per il 1802-1807, come da lui indicato) il primo arrivo di documenti riguardanti siti della penisola, operati da Thiébaut de Bernard per centri quali Spoleto, Ameria, Gubbio, Todi e Cosa.
35 In Eclaircissemens 1804, Pl. I, F. I, è peraltro riportato l’esempio di un muro in opera incerta: si ricordi che il Petit-Radel aveva avuto il merito, riconosciutogli dagli estensori degli Eclaircissemens, di fare giustizia della teoria sopra citata circa l’identificazione fra opus incertum e opera poligonale.
36 Sono i resti delle terme del Foro, dei quali esisteva al tempo il già citato disegno di Volpi commentato in questo volume nella parte Documenti.
37 L’ordine delle notizie e la denominazione dei monumenti sembrano desunti dalla lettura di Corradini 1705.
38 Dalla lettura di Valle, 1646.
39 Puntuali spunti in tal senso sono già in Zevi 2007.
40 Tale anno è indicato in Petit-Radel 1841, pp. 36-37 come quello dell’avvio, a sua detta simultanea, della documentazione delle città del Lazio da parte dei tre studiosi.
41 Che raccolse, dopo il viaggio del 1808-1809 in Italia, documentazione di Segni, Norba, Cori, Alatri poi edita in Middleton 1812. A sottolineare il fine “scientifico” delle esplorazioni del Middleton si rammenta che egli eseguì in alcune occasioni interventi di scavo volti a documentare in maniera più completa i propri studi: questo certamente per il caso di Segni, dove una tavola del volume documenta espressamente tale ‘approfondimento’ dell’indagine. Sul Middleton si veda, nel Catalogo, la scheda relativa ad opera di N. Ciceroni.
42 Oltre a molti centri della Grecia e della Magna Grecia, il Dodwell documentò nel Lazio un impressionante numero di murature ‘pelasgiche’, in centri quali Norba, Segni, Cori, Alatri, Ferentino, Circei, Terracina (soffermandosi qui anche sulle strutture del territorio, fra le quali i basamenti di alcune delle celebri ville), Palestrina, Sezze, ancora ville del territorio attorno a Frascati e, infine, quelle del territorio attorno a Tivoli: tali disegni vennero editi postumi nel volume Dodwell 1834. La raccolta dei suoi disegni preparatori è al Sir. John Soane Museum di Londra. Sul Dodwell si veda, nei Documenti, la scheda relativa ad opera di C. Ciccozzi.
43 Alla Dionigi spetta il merito della documentazione delle città dell’interno, Alatri, Ferentino, Atina e Arpino, oltre ad Anagni, documentazione tempestivamente edita in Candidi Dionigi 1809. Sulla personalità e la vita di questa figura si veda quanto raccolto nel recente convegno in Attenni, Pasqualini 2007.
44 La connotazione scientifica di queste ricerche è peraltro sottolineata dalla frequente organizzazione di ‘gruppi di lavoro’ facenti capo ai singoli «savants», i quali, benché quasi sempre essi stessi architetti, sceglievano altrettanto frequentemente di accompagnarsi con altri architetti: si pensi alle coppie Dodwell – Vespignani o Candidi Dionigi – Campovecchio.
45 In Eclaircissements 1804, p. 455-456 è espressamente richiesto che tutti i tipi di documenti forniti dovranno essere «… très-précieux».
46 Secondo quanto sta ben mettendo a punto Carla Ciccozzi in uno studio solo riassunto in questo volume nella scheda relativa a F. Debret, nella parte di Catalogo.
47 Il Paris proprio nel 1807 fu direttore dell’Académie de France à Rome, interessato alla questione sulle mura poligonali (la partecipazione attiva del Paris al dibattito ‘pelasgico’ è anch’essa già stata ampiamente analizzata in Pinon 2007, pp. 269-281) come testimoniano le sue visite a città quali Fondi, con precise notazioni sulle strutture ’cyclopéens‘ della città e riferimenti al dibattito in corso: per questo dettaglio Pinon 2007, p. 269. Al Paris, secondo quanto puntualmente ricostruito dalla Ciccozzi, era legato il maestro dei due giovani architetti, il Perciere.
48 Lo stesso Petit-Radel segnala per il 1807 l’invio da parte degli stessi due architetti di disegni di Cori e di Fondi: Petit-Radel 1841, p. 77.
49 Petit-Radel 1841, p. 34. Di tale ulteriore appello non sono ancora stati individuati gli esiti pratici.
50 Pinon 2007, pp. 281-304.
51 Micali 1810a, tomo I, cap. VII, pp. 75 ss. e tomo II, cap. XXV, pp. 128 ss.
52 Micali 1810b, tav. XII, 2 (il disegno è peraltro ripreso in Inghirami 1825, T. VI, tav, F6 n.9). Il disegno dell’Alippi (si veda sotto nel Catalogo) è tuttavia connotato da una generale discordanza con la realtà archeologica del monumento, tanto da renderlo ancora assai distante dai precisissimi lavori di ‘documentazione grafica’ redatti negli stessi dal Dodwell, dal Middleton e dalla coppia Debret-Lebas: per questi si veda quanto detto poco sopra.
53 Friedrich Karl Sickler (1773-1836) risedette a Roma per lungo tempo, dove pubblicò nel 1811 il Plan topographique de la Campagne de Rome considérée sous le rapport de la géologie et des antiquités, dove sono fatti cenni anche a centri quali Segni, visitati dall’archeologo tedesco assieme al paesaggista Gmelin. A questi, e al Reinhat e al Rhoden, egli commissionò disegni di città quali Palestrina, Tivoli, Ferentino e Segni.
54 Questo punto del dibattito fra il Sickler e il Petit-Radel costituì uno dei maggiori successi del francese: una commissione di tre membri nominata dall’Institut de France giudicò infatti insostenibile tale identificazione, che pur riposava sulla somma autorità del Winckelmann, decretandone così la fine e riconoscendo al Petit-Radel il merito di tale progresso degli studi: Pinon 2007, pp. 288-290.
55 Su Marianna Candidi Dionigi si veda ora Attenni, Pasqualini 2007.
56 L’inesattezza del disegno della Dionigi venne discussa dal Petit-Radel già nel terzo tomo del Magasin Encyclopédique del 1810, pubblicando alle pp. 354-357 la sintesi di una lettera inviatagli a tal fine da Roma dal Dodwell. La missiva riporta una gustosa sintesi delle spiegazioni addotte dalla Dionigi per tale inesattezza: a precisa domanda del Dodwell, la studiosa lanuvina aveva risposto «qu’elle l’avoit fait exprès pour démontrer plus clairement la diversité entre les deux manières» ma subito dopo la Dionigi stessa, ‘candidamente’, confessava di aver fatto disegni «pittoresques», eseguiti senza badare troppo all’esattezza della riproduzione! Allegato alla lettera era un disegno, eseguito dal Dodwell alla «chambre noire» alla presenza della Dionigi stessa, che restituiva un’immagine reale della «tour de l’Evêché». Su questo vedi già Pinnon 2007, p. 288.
57 Quanto comunque il dibattito pelasgico avesse acceso l’interesse per queste città è testimoniato dall’infittirsi dei viaggi di eruditi in centri fino ad allora completamente esclusi dalle rotte: ne sono testimonian- za ad esempio la presenza a Segni di G.B. Brocchi nel 1815- 1816 (da De Caprio 2007, pp. 58-60), o ancora le registrazioni fatte dallo stesso Petit-Radel per gli anni 1819-1826 (in Petit-Radel 1841, pp. 98-111) in relazione all’esecuzione dei nuovi documenti che andavano pervenendogli.
58 Gerhrad 1829, in part. pp. 78-89 per Segni.
59 Sui disegni del Labrouste a Segni Cifarelli, Ciccozzi 2010.
60 Su tali strutture Cifarelli 1992 , part. pp. 56-57.
61 Petit-Radel 1834, pp. 354-367.
62 Si vedano le schede relative nei Documenti.
63 Vedi la scheda di B. Scuppa nei Documenti.
64 Era nato a Parigi il 26 novembre del 1756. Sulla vita del Petit-Radel si veda l’ampio excursus posto quale introduzione al volume postumo del 1841: Petit-Radel 1841, pp. III-XVII.
65 Fonte-a-nive 1887.
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