Il Teatro d’autrice
Sono nata a Sezze, nel 1957, una mattina di giugno. Le strade antiche erano vuote di macchine, e vocianti di bambini sempre pronti a giocare, anche con giocattoli fatti da soli, e seguire gli zampognari nei giorni di Natale, sentire le storie fantastiche di mio nonno sotto il cielo stellato d’estate, quelle paurose di mia zia davanti al fuoco d’inverno, per poi rivederne i fantasmi negli angoli all’imbrunire, ascoltare liti e canti dialettali mandati alla poeta dalle donne. E tremare ed essere affascinata dai riti, come il venerdì santo, i sacconi neri e i fuochi nei vicoli, o la sera dei morti, il sale e l’acqua sul tavolo, o il carnevale misterico e notturno tra le case aperte e i suoi travestimenti di riti arcaici e pagani.
Ricordo la mia nonna contadina autodidatta, che scriveva poesie e canzoni, come una cantastorie. Come l’affabulazione di guerra di mio padre, che era una sarto, e lo chiamavano “il re dell’ago”, nel bar di una piazza allora più umana e ridanciana. Con mia madre – quel suo canto sottile e intonatissimo – anche lei sarta, ricamavano linee di gesso e tessevano fili su quelle stoffe che sarebbero diventate abiti, che a volte indossavo giocando davanti allo specchio con i personaggi che questi evocavano. Ecco, più che i teatrini di parrocchia, che pure ebbero un ruolo di formazione, è stata quella eccezionale varietà umana e sociale, quella creatività quotidiana, ironica, immaginifica, surreale, struggente e forte, in quella terrazza setina affacciata sulla vastità della pianura, a nutrire in me quello che anni dopo sarebbe diventata una disciplina d’arte: il teatro d’autore, che vuol dire curare in senso artigiano ogni aspetto della narrazione scenica, dalla scrittura alla realizzazione dei materiali.
Ed i miei testi, spesso considerati astratti – sicuramente lontani da un’idea di teatro di parola borghese – sono nati tutti da quell’infanzia anarchica e timida. Non me ne sono resa conto subito. A vent’anni realizzai una perfomance in una piazzetta, ed ero affascinata dalla politica degli anni Settanta, in una Sezze allora luogo colto e appassionato, con tre sale di cinema sempre affollate. Così come le esperienze di teatro, magari un po’ enfatiche, come il Teatro Lazio di cui sentivo gli echi, che unirono comunque molti giovani dei paesi dei Lepini. E il Maestro Giuseppe De Angelis, che mi spronò a recitare. Ma furono anche, fra i molti, gli spettacoli visti nel Teatro Italiano di Sezze, dall’acustica perfetta, stracolmo di spettatori, in cui ricordo anche Domenico Modugno nel Liolà di Pirandello, a rinforzare la mia passione. Ho cominciato a scrivere da sola e con gli amici le prime storie teatrali. Nel 1981 è cominciata la formazione professionale, e forse non è un caso che uno dei miei maestri (Riccardo Caporossi, attore-autore in duo con lo scomparso Claudio Remondi) provenga dai silenzi dei Monti Lepini, come la sua bellissima Carpineto. Molte delle sue architetture oniriche e gli elementi scenici hanno richiamato spesso la cultura pastorale di quei boschi ombrosi, benché la sua e la mia arte siano assolutamente contemporanee e nutrite ovviamente di altri linguaggi e culture. Andare via e scoprire altri mondi, formarsi in bottega, sperimentare teatri nazionali ed esteri è stato necessario e fondamentale, ma l’identità e la cultura di appartenenza resta. Che per me è identità in movimento, in continua mutazione. Da non confondere con il folklorico, che spesso fissa in un’epoca indefinita la cultura contadina e artigiana, perdendo di vista una ricostruzione filologica più rigorosa. Come più ampia è l’identità stessa dei Monti Lepini, carichi di storia, cultura spirituale e intellettuale. E si potrebbe indagare come anche il teatro, la cui passione è qui così diffusa, sia in parte frutto di scuole secolari, in particolare quelle che storicamente si imposero all’educazione popolare, come le gesuitiche. Nel 1987 ho fondato l’Acta Teatro, scrivendo e realizzando lavori originali con l’attrice-autrice Marina Tufo, formatasi con gli stessi maestri, e con Renzo Viglianti, disegnatore e ludotecario, che crea oggetti e allestimenti scenici originali. Nel lungo lavoro di questi anni, molti sono stati i legami con il territorio, tra cui un progetto dei primi anni Novanta che si chiamava Luoghi Comuni: erano i cortili e le piazze, perfino la stazione ferroviaria di Sezze a raccontare, attraverso gli attori, le storie umane, malinconiche e allegre, richiamo poetico per una città che stava perdendo identità, affollata di macchine e con le persone ormai incollate alla TV. Così come sono stati significativi i molti esperimenti di teatro sociale, in particolare nel Centro Sociale di Sezze Scalo, dove il teatro diventò un vecchio bambino, ma anche il lavoro con gli immigrati come Ciascuno cresce solo se sognato del 2002, in cui i partecipanti di ogni età e cultura hanno trovato voce nel racconto corale, e da cui sono scaturiti anche spettacoli professionali come Sedie (1985). E l’esperienza di teatro di educazione, realizzato in molte scuole, che ci ha portato nel 2007 al Premio “Maschere Nude” del Centro Studi Pirandelliani di Agrigento, con i ragazzi dell’Itis “Marconi” di Latina. Ma anche quando il teatro ha incontrato la musica nello spettacolo Allegroamaro, così come in altri concerti con il musicista Massimiliano Ottocento, ho iniziato sempre gli spettacoli con il canto a stesa Arbero Sicco, sia in Italia (tra cui Roma, Castel Sant’Angelo, e il Festival della Lusitania di Salerno) che all’estero, in Romania, in Francia, in Portogallo (Teatro Sao Luiz di Lisbona, per l’Istituto di Cultura Italiana).
Ma il lavoro teatrale in cui la scrittura scenica si è intrecciata con la ricerca storica e in modo particolare con la storia di Sezze del periodo tra Seicento e Settecento è Gli Ultimi di Carnevale overo Per Santità Finta In Sommo Grado (Roma, 2005), che ha visto anche un’edizione speciale con l’Amministrazione provinciale di Latina nel 2007, insieme ad una pubblicazione critica della ricerca e del testo scenico (L.Viglianti, M. Tufo, Per Santità Finta In Sommo Grado, Maria Valenza Marchionne tra ricerca storica e scrittura teatrale, Herald Editore, 2007). In esso si narra del processo di Inquisizione, svoltosi a Roma il 12 settembre 1703, contro la sorella del futuro S. Carlo, in realtà vicenda di una guerra intestina tra ordini francescani e gesuiti per il controllo delle coscienze e dei beni temporali locali. Sono molti gli angoli e i palazzi del paese che ricordano questa drammatica vicenda. Questa lunga ricerca ha restituito un eccezionale spaccato storico-culturale di questi luoghi, che andrebbe approfondita, insieme a quella in senso più antropologico. Studio e analisi che darebbero motivi di sviluppo al nostro territorio, intrecciando ricerca scientifica e culturale per creare prodotti spendibili anche all’estero, oltre ad un indotto anche di tipo commerciale locale stabile. Vivere la mia dimensione di donna artista (che è un lavoro identico ad altri, ma spesso incompreso e denigrato) è stato ed è ancora molto difficile, soprattutto per questo periodo di ripiegamento sociale, avvilendo i nostri luoghi e i nostri giovani, nostro futuro, accartocciati su se stessi, ma anche tutti i cittadini, quando invece dovrebbe essere la cultura a creare benessere. Cultura non solo del mi ricordo di tempi andati artatamente resi paradisiaci a favore di presenti spesso autoreferenziali, ma come invenzione di mondi possibili, che restituisca la dignità del lavoro professionale d’arte, radicato nella terra di origine. Questione di scelte. Chiudo perciò proprio con un verso stupendo di “Arbiro Sicco”: La prima (donna) le sa fare le catene, ma la seconda le sa scatenare… Scateniamo cultura.
Articolo a cura di: Lucia Viglianti.
Autrice, Attrice e Regista dell’Acta Teatro, Cantante, Scrittrice, Insegnante.
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