Catalogo dei Musei dei Lepini
Luoghi e itinerari tematici

ITINERARIO 14

Testi di Francesco Staffa

Finestre sul Paesaggio

“…una catena di montagne pittoresche, coltivate accuratamente e coperte d’alberi su tutti i loro declivi: è un immenso giardino sparso d’uliveti, le cui fronde grigiastre sembrano in ogni stagione bagnate da un vapore mattutino” (About 1952: 153). Con questa immagine evocativa Edmond About nella seconda metà dell’800 descriveva il complesso dei Monti Lepini, situato tra due vie di comunicazione romane, la Via Appia, la Regina Viarum che taglia l’Agro Pontino e la Via Casilina, che attraversa la Valle del Sacco. La presenza di queste due importanti arterie ha prodotto lo sviluppo del sistema insediativo a mezza costa dei Monti Lepini, di cui i centri più importanti sono Cori, Norma, Ninfa, Sermoneta, Bassiano, Sezze, Roccagorga, Maenza, Priverno, Roccasecca, Sonnino, località che hanno subito una trasformazione urbanistica in epoca feudale presumibilmente determinata dalla necessità di sfuggire alla malaria che imperversava nelle paludi Pontine. Il panorama che si gode da questi luoghi abbraccia l’Agro Pontino fino al mare e verso sud fino al Circeo. Questo ampio quadrilatero allungato in senso nord ovest verso Roma e sud est verso Terracina ha contribuito a segnare la storia delle popolazioni dei Monti Lepini.

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Giunti a Sermoneta, prima di visitare il castello Caetani che domina il paesaggio circostante, dalla piazza antistante l’entrata è possibile affacciarsi e riconoscere l’oasi di Ninfa e un imponente scorcio delle Paludi Pontine. L’oasi rappresenta un mirabile esempio di come doveva apparire questo territorio in epoca romantica ai viaggiatori che percorrevano queste terre alla volta del Regno di Napoli. Oggi il giardino con i numerosi specchi d’acqua e le molteplici varietà di piante non ha perso la sua magnificenza, tanto che dal 1976 è stato dichiarato Monumento Naturale.

Proseguendo con lo sguardo verso il mare si scorgono le strutture rurali e gli interventi idrici disseminati lungo la piana pontina che testimoniano la conquista del territorio paludoso e la sua trasformazione Ciò che si offre allo sguardo del visitatore è il risultato dei lavori di bonifica già avviati in tempi romani, protratti in epoca barbarica – ad opera di Teodorico – e in seguito per volere dei papi Leone X, Sisto V e Pio VI. Ma fu solo in epoca fascista che l’odierno agro pontino ha cambiato volto. Negli anni ’30 del ’900, infatti, un massiccio reclutamento di coloni provenienti dal Veneto e dalla Romagna ha dato avvio alle opere di bonifica e in seguito di coltura dell’area. Con la trasformazione del territorio si è assistito anche alla mutazione degli antichi assetti comunitari. L’arrivo di masse di “disperati” dal nord è stato visto dalle popolazioni dei Monti Lepini come un’usurpazione della propria terra che ha determinato un clima di diffidenza reciproca. Ad acuire ulteriormente la situazione ha contribuito anche il fatto che i coloni tradotti in quell’area dovevano dimostrare fedeltà al fascismo, mentre i locali storicamente esprimevano un orientamento socialista. Tale rivalità è esemplificata dai soprannomi che coloni e locali si sono dati reciprocamente: “he he loro cispadani e noi marocchini per distinguere tra noi e loro…” (Gaspari 1985: 160).

Altro elemento di tensione sono le differenze dei costumi, di lingua, di cultura e il diverso habitus. I modi disinvolti delle donne venete che girano in bicicletta o che vanno a ballare con chi vogliono non sono stati compresi dai locali. Questi contrasti non hanno impedito la contrazione di matrimoni tra coloni e donne locali generando ulteriori elementi di frattura: da un lato, la tendenza della popolazione dei Monti Lepini a impiantare la famiglia all’interno delle mura castrensi si contrapponeva alla necessità di trasferirsi in aperta campagna; dall’altro, l’abitudine locale dei nuovi sposi di trasferirsi in una nuova casa, abbandonando il nucleo familiare di provenienza contrastava le usanze rurali venete, dove gli sposi restavano nella famiglia paterna, creando un nucleo allargato. A ciò va aggiunto il clima di precarietà che si è prodotto con la conclusione della bonifica: la diminuzione dell’offerta di lavoro, la guerra, il tesseramento, il razionamento del cibo (qui maggiore rispetto ad altre province) ha determinato nei rurali di Sezze – Priverno – Roccagorga – Sonnino – Norma – Bassiano – Prossedi – Terracina etc. un forte sentimento di ostilità nei confronti dei coloni visti come dei privilegiati, degli “usurpatori” venuti a “far fortuna” nell’Agro Pontino. Solo con la fine della guerra è arrivato il riscatto quando gli abitanti dei paesi dei Lepini hanno occupato le terre dei grandi proprietari e i poderi dell’O. N.C. (Opera Nazionale Combattenti), dove vivevano i coloni immigrati.

Le tensioni si sono protratte nei decenni successivi finché, durante la stagione del boom economico si assiste ad un graduale allentamento, determinato da un costante fenomeno di pendolarismo che attira le popolazioni pontine verso la capitale, sede di cantieri edili e di industrie. Ne resta una eco nei campi coltivati che lo sguardo coglie senza soluzione di continuità fino alla Valle dell’Amaseno. Qui l’elemento caratterizzante è il fiume omonimo che ha costituito nel corso dei secoli un importante vettore di comunicazione e commerci, determinando la crescita delle comunità ad esso legate. Roccagorga, Priverno, Sonnino, Roccasecca dei Volsci, Maenza, Prossedi, Vallecorsa sono i principali testimoni di questo sviluppo.

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Questi paesi, arroccati intorno agli edifici che rappresentavano il potere – palazzo signorile e chiesa – accolgono il viaggiatore sulle colline con le loro case che si addensano lungo erte, scalinate e strade strette. Sono costruiti guardandosi l’un l’altro, come se si fronteggiassero, si controllassero e rivaleggiassero tra di loro. Paesi che “condividono” un territorio, le medesime risorse collettive e che appartengono a una stessa comunità ma contemporaneamente vantano singole identità di campanile. Queste vengono ostentate nelle feste che durante l’anno illuminano le colline lepine con i loro fuochi (cfr. Padiglione 2001: 165), reiterate di anno in anno anche se con uno spirito più “disincantato” e nostalgico. Falò e ceri si accendono per ragioni celebrative differenti e in differenti occasioni e luoghi: il Venerdì Santo a Roccagorga, l’Ascensione a Bassiano, Cori e Sonnino, la Vigilia di San Giuseppe a Sermoneta e Priverno. Restano saldi e identici per tutti i luoghi della celebrazione: le piazze, i crocicchi, i sentieri. Immutato è il valore attribuito a uomini e donne, la comunità che partecipa all’evento. Durante questi momenti si celebra “l’armonia comunitaria; la gioia e l’allegria condivisa, i cibi consumati insieme, il momento della ricostruzione di vincoli […], di celebrazione di identità comune. Ed è certo curioso per un visitatore occasionale venire a conoscenza che questi presunti simboli di una identità comune ardano assai spesso di un acceso agonismo” (Padiglione 2001: 166). Una competizione esplicitata nei motti e nelle battute che vengono recitati durante queste manifestazioni e che si riscontra anche nei blasoni popolari che, come ricorda Padiglione, “erano un tempo il modo usuale di giudicare quegli strani forestieri che abitavano i paesi vicini” (ivi). Un ricco patrimonio orale che si esprimeva in occasioni collettive “dove vi era da attizzare il gioco delle rivalità tra paesi confinanti, il contrasto tra identità e differenze, tra noi e loro” (Padiglione 2001: 167). Si tratta di epiteti o soprannomi collettivizzanti, ma altro non sono che giudizi sommari, utilizzati per caratterizzare, in modo pregiudizievole e senza un vero spirito critico, i membri delle comunità vicine, ma anche i propri.

La comunità di Roccagorga, ad esempio, parla di se stessa facendo riferimento a un’identità improntata sul lavoro, la lotta sociopolitica, l’ingegno e la laboriosità, parla della sua piazza barocca come segno qualificante così come delle sue donne operose, diligenti e dominanti. Mentre per le comunità vicine i Rocchigiani sono montanari indigenti, pigri e fannulloni che pensano solo a suonare, le cui donne sono brutte anche se devote e con una buona dote (Cfr. Padiglione 2001: 168). Questo senso di appartenenza al proprio paese si può riscontrare anche nelle scelte matrimoniali: analizzando l’andamento dei matrimoni nella comunità di Roccagorga si nota la prevalente endogamia vissuta fino a tutta la prima metà del ’900, in cui l’80% dei matrimoni era tra compaesani. Anche qui lo sviluppo economico, il pendolarismo, la crescita sociale e culturale hanno determinato dei cambiamenti: i contatti tra paesi stessi e con la capitale sono incrementati, implementando la possibilità di incontri con persone provenienti da altre aree, che ha favorito, nel trentennio dal 1965 al 1995, l’evoluzione di un sistema esogamico, con solo il 33% di matrimoni tra locali.

L’ordito di storie, conflitti, memorie e racconti di cui è intessuto il panorama dei Monti Lepini è solo uno dei sentieri che si dipanano su queste terre e che si offre allo sguardo del viaggiatore. Le finestre sul paesaggio svelano uno scenario di eventi umani, la cui storia è rintracciabile all’interno di un patrimonio di oralità e scrittura che diventa uno stato d’animo sia all’interno di coloro che l’hanno vissuto e “domesticato” nel corso del tempo sia in colui che lo lambisce occasionalmente, attraverso un itinerario che può divenire più consapevole percorrendo le orme custodite all’interno dei vari musei del sistema dei Monti Lepini.

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