Catalogo dei Musei dei Lepini
Luoghi e itinerari tematici

ITINERARIO 10

Testi di Antonio Riccio

Sapori Lepini. Alimentazione e Paesaggio agro-pastorale

Due citazioni  sembrano appropriate per un contributo sugli stretti legami che il cibo istituisce tra il territorio lepino e le sue identità culturali. La prima: “Ciociaria. Pane per i tuoi sensi” è il claim pubblicitario diffuso attraverso i manifesti di una recente campagna cartellonistica regionale (APT-Frosinone, 2007). La seconda è l’espressiva ed orgogliosa affermazione di una fornaia lepina: «A glio furno meo, n’ci sta panini, n’ci sta lo filone, ci sta lo pano rocchiciano, lo pano nostro chello antico che so fatto sempre. Chi lo vò se lo toglie e chi non lo vò va a spasso». La Ciociaria ed i Monti Lepini (aree contigue ed in parte anche con-fuse) appaiono come il luogo in cui (ri) trovare alimento per i nostri sensi (ma anche le nostre emozioni e cognizioni), attraverso la metafora del pane, simbolo del cibo per antonomasia nel nostro Paese, un pane non omologato in panini o filoni, che evoca un patrimonio gastronomico locale ed istituisce livelli di relazione anche con il paesaggio agro-pastorale. È utile quindi interrogarsi sulla “cultura alimentare lepina” come riscoperta e “lettura” di questo territorio. Chiedersi quali usi, trasformazioni e permanenze culturali esibisca e, soprattutto, in che misura contribuisca alla (auto)rappresentazione comunitaria, anche nella sua vocazione turistico-culturale.

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Una prima risposta, necessariamente parziale, è che la cultura alimentare lepina si riproduce e si rappresenta oggi grazie ad una memoria collettiva gelosamente conservata, ed una tradizione creativamente rinnovata, che trovano celebrazione in importanti Sagre divenute emblemi territoriali di successo. Ad esempio le sagre della Polenta di Sermoneta e dintorni (in gennaio-febbraio), la Sagra del Carciofo di Sezze (marzo-aprile) e quelle della Capra (a Sonnino, Roccasecca, Maenza, Roccagorga ed altre comunità lepine, tra agosto-settembre). Queste “feste alimentari” che certamente non esauriscono la ben più ampia e variegata offerta locale, costituiscono tuttavia “eventi culturali” significativi. Quelli cui è affidata (in buona misura) l’immagine del territorio pontino-lepino che, come noto, oscilla tra palude e montagna, fertili pianure coltivate, aspri paesaggi montani di pietre e lecci, faggi e querce, dove ancora sopravvive un pascolo semi-brado di capre, cavalli, vacche ed un discreto allevamento bufalino, specie nella valle dell’Amaseno. Quest’oikos integrato pontino-lepino, di estese coltivazioni in pianura e minuscole rocche isolate che di notte punteggiano le montagne come presepi luminosi e suggestivi comunica

– anche attraverso le Sagre dei suoi cibi e dei suoi sapori

– implicite identità territoriali: ‘tradizionali’ o più ‘moderne’; ovvero più “aperte” verso l’esterno o più “intime” e comunitarie.

Le Sagre, come è noto, sono feste in onore di “prodotti eccellenti“ ritenuti significativi e “tipici” di una certa zona, di una certa comunità; eletti anzi ad emblema di questa.

Sermoneta e dintorni: Sagra della Polenta
Sermoneta e dintorni: Sagra della Polenta
Il Carciofo di Sezze
Il Carciofo di Sezze
Sagra della Capra (Sonnino, Roccasecca, Maenza, Roccagorga ed altre comunità lepine)
Sagra della Capra (Sonnino, Roccasecca, Maenza, Roccagorga ed altre comunità lepine)

La polenta, per esempio, pur essendo diffusa ampiamente in tutt’Italia, è considerata un emblema lepino, per diverse ragioni. Un’antica presenza del mais in queste terre, la cui coltivazione era favorita, tra l’altro, dalle paludi pontine. Creative “declinazioni gastronomiche” che associano la polenta a must locali come i broccoletti, il baccalà, la ricotta, le lumache, i funghi, il sugo di zazzicchie e di capra. La sua ampia diffusione nell’area trova poi rappresentazione elettiva in un minuscolo “distretto” di polentari lepini, intorno a Sermoneta (nelle borgate di Doganella di Ninfa, Monticchio, Pontenuovo–Carrara, Sermoneta Scalo, Borgo Tufette), dove si celebrano Sagre annuali che osservano un preciso “complesso culinario” fatto di tecniche, materie prime e modi di cottura rigorosamente ‘ locali’. La polenta lepina è infatti cotta a legna in paioli di rame, rimescolata costantemente a mano, con pertiche di legno, condita con olio extravergine d’oliva locale ed insaporita da erbe aromatiche di montagna. Ed è precisamente quest’insieme integrato di legno, rame, fuoco, erbe, olio, e socialità festiva (a volte integrata in ricorrenze patronali come la festa di Sant’Antonio Abate) che crea un mixing culturale sensoriale di “effetto locale”. Tutto questo trova poi una perfetta “location” a Sermoneta, cittadina medievale e turistica di grande bellezza, che richiama ogni anno in quest’occasione un vasto pubblico di estimatori, sia dall’area lepina che da Frosinone, Latina e Roma, mentre le sagre della polenta che si tengono nelle borgate nelle domeniche successive, mostrano un carattere più “intimo”, “ristretto” e comunitario, ed offrono varianti anche più “tradizionali” della polenta lepina (con broccoletti, baccalà, ecc.).

L’ incorporazione di cultura locale nel bene alimentare si rivela quindi fattore di successo delle sagre lepine e caratterizza quelle più conosciute ed importanti, come la festa del Redegli ortaggi, il Carciofo di Sezze e della Regina delle “carni basse” della Ciociaria, la Capra. A Sezze, tra fine marzo e primi di aprile, una sagra ormai “storica” trasforma dei carciofi speciali (i cimaroli) in beni gastronomici eccellenti per un pubblico sempre più ampio, grazie a sapienti processi culinari. Strategica appare tra questi la farcitura (con l’ “intruglio” di mentuccia di montagna (nepotella), aglio fresco, sale, peperoncino, olio extravergine d’oliva locale. Non meno caratterizzanti appaiono le diverse forme di cottura. Al forno, fritti dorati, “alla giudia”, in casseruola, ed anche crudi (un segno di contemporaneità), sempre rigorosamente innaffiati con abbondante olio d’oliva di Sezze, i cimaroli divengono straordinarie armonie sensoriali (di profumi, sapori, bellezza visiva). Ma il loro successo stà soprattutto nella felice incorporazione della vocazione ortofrutticola locale (cioè il presente ed il futuro del territorio) nelle radici storico-culturali, nell’ambientazione cittadina, nella festa di comunità e nella mobilitazione popolare che fa di quest’evento una occasione di forte attrazione, sia per le comunità limitrofe che per le città più distanti. Partecipa quindi di un moderno circuito turistico-culturale e gastronomico; di un complesso processo di transazione tra ospitanti (hosts) e ospitati (guests) che offre occasione ludica, festiva, alimentare e consumatoria per una salutare rigenerazione, un momento di cambiamento e rinnovamento delle routines sociali, per i visitatori come per la comunità ospitante.

Tra agosto e settembre, in molte comunità lepine fioriscono infine le Sagre della Capra, una “carne bassa” (così definita nelle delibere comunali ottocentesche) divenuta oggi un rivendicato e rivalutato emblema di naturalità e genuinità. Questa carne ‘declassata’, rivendicano i sonninesi, è rimasta infatti “l’unica carne genuina”. Perché la capra, a differenza di bovini, suini ed ovini, rifiuta i mangimi e quindi si nutre ‘naturalmente’. Le sue carni sono un cibo totalmente “biologico” (come si usa dire in maniera mimetica con il ‘culto del biologico’ contemporaneo) che conserva il sapore di una volta. La preparazione, dice con orgoglio un macellaio, parte da un sapiente mix di coscio, capocollo e costolette, per preparare il tipico piatto di carne al sugo, cotta a lungo nel pomodoro, con rosmarino, peperoncino, aglio, olio di Sonnino, e vino; “ma non stracotta! – si raccomanda il macellaio – deve essere una carne consistente”. Il suo consumo, a differenza del carciofo setino, costituisce più un culto identitario che un emblema turistico-promozionale. è cibo per consumo familiare, diffuso in tutto il territorio pontino-lepino, come si può constatare dagli acquisti (dai 35-45 chilogrammi a famiglia) e dai clienti (molti dei quali discendenti dei coloni veneti, emiliani, romagnoli, trapiantati in agro pontino per la bonifica). è una risorsa per rigenerare le identità locali, che molte comunità lepine celebrano tra la fine di agosto ed i primi di settembre. Da Carpineto a Maenza, da Roccagorga a Sonnino, da Roccasecca a Cori, è il trionfo di un carne rituale da consumare in onore dei propri avi, delle proprie tradizioni e farassaporate ad eventuali forestieri ed ospiti. Rappresenta la “ricerca dell’autenticità”, della propria memoria ed identità collettiva, attraverso il sapore ed il gusto per ricavarne un riconoscimento nella differenza.

Anche attraverso queste feste dei sapori, la cultura alimentare lepina mostra quindi le sue implicite valenze comunicative giocando, per gli attori locali, un ruolo privilegiato nel definirne l’identità. Costituisce in tal senso non solo un repertorio di sapori ma soprattutto di saperi per auto-rappresentarsi tra le molteplici appartenenze (locale e globale, nazionale e regionale, comunitaria o d’area) ed i contesti (mutevoli e dinamici) contemporanei. Il cibo lepino è quindi preziosa risorsa per costruire un complesso patrimoniale locale buono per pensare lo sviluppo (compatibile ed integrato) del territorio, e dei suoi paesaggi, da alimentare con sempre nuova ed effervescente cultura.

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