Il Museo di Artena, allestito nel seicentesco Granaio Borghese, ospita una collezione formatasi grazie a due distinte azioni di studio e valorizzazione: le ricognizione condotte in tutto il territorio comunale e, soprattutto, le campagne di scavo intraprese in loc. Piano della Civita (dove insistono le rovine di un antico abitato). Congiuntamente al nuovo allestimento del Museo si è lavorato alla musealizzazione dell’area archeologica, ora dotata di percorsi attrezzati, pannelli didattici e di un apposito centro visite. Ed è certamente questo l’aspetto più qualificante del progetto museale di Artena: la possibilità di integrare la visita di un sito archeologico con un Museo nel quale sono esposti i materiali ritrovati nel corso di regolari campagne di scavo, nell’ambito di un allestimento che consente di sviluppare, sulla base di dati acquisiti scientificamente, le tematiche utili alla comprensione e alla illustrazione di un antico centro urbano abbandonato agli inizi del III sec. a.C. I materiali recuperati nelle indagini non si distinguono tanto per la rarità o per il loro valore intrinseco, ma per lo stato di conservazione (si tratta di forme spesso intere) e per il contributo che essi forniscono alla ricostruzione della vita quotidiana di una comunità vissuta in età medio – repubblicana. La nuova analisi tipologica e stilistica condotta sui frammenti di terrecotte architettoniche recuperate negli scavi, ha evidenziato la presenza di due distinte fasi decorative degli edifici di Artena: la prima riconducibile alla fine del VI – inizi del V sec. a.C., la seconda certamente ascrivibile all’ultimo periodo di vita dell’abitato, abbandonato nel primo quarto del III sec. a.C. Ma è la cosiddetta “cultura materiale” che svolge un ruolo significativo e preponderante nel Museo di Artena.
La cospicua serie di brocche in semplice ceramica comune, spesso recuperate nello scavo dei pozzi-cisterna distribuiti nel pianoro in maniera assai diffusa (sia all’interno che all’esterno delle case), attesta la particolare attenzione che veniva data al problema della raccolta e della conservazione dell’acqua piovana, vista la totale assenza di sorgenti naturali sul pianoro. Alle produzioni ceramiche meno accurate (alle quali vanno ascritte anche olle, coperchi e pentole), deputate alla cottura e alla conservazione di cibo e derrate alimentari, si affiancavano prodotti più raffinati e di rappresentanza, anche se sempre di produzione seriale, considerato il livello economico di una comunità piuttosto semplice e pastorale. È il caso, ad esempio, delle belle brocche in ceramica a vernice nera sovraddipinta, vero e proprio vasellame da tavola verosimilmente deputato alla mescita del vino, che nelle forme imita le più preziose produzioni in metallo. Tra queste produzioni più raffinate si distingue la serie di piccoli piattelli su piede a stelo (cosiddetti “piattelli di Genucilia”), con decorazione interna riproducente volti femminili resi di profilo. In alcuni casi la tipologia dei materiali rinvenuti negli scavi ha consentito di formulare ipotesi verosimili sulla originaria funzione di specifici ambienti domestici, spesso assai difficilmente interpretabili, vista la povertà e lo stato di conservazione delle strutture riportate alla luce. L’ambiente A del cosiddetto “Edificio dei thymiateria”, è risultato essere il luogo dove si svolgevano le attività domestiche femminili: vi sono state trovate le tracce di un focolare, e, soprattutto, in un angolo della stanza, i resti carbonizzati di una struttura in legno, attorno alla quale si disponeva un cospicuo numero di pesi parallelepipedi in terracotta.
Erano i resti di un telaio per tessere la lana, sicuramente una delle attività produttive più importanti della comunità di Artena, principalmente dedita, allora come fino a un recente passato, alla pastorizie. Tra i pesi recuperati, tutti simili e piuttosto anonimi, spicca l’identificazione di un esemplare che reca inciso, quando l’argilla era ancora fresca, una breve testo, purtroppo lacunoso, nel quale è stato possibile riconoscere il nome di una donna, Gaia, sicuramente una lavorante al telaio. Si tratta di una preziosa testimonianza che, oltre al dato in se, suggerisce informazioni sulla cultura di questa comunità, che, in età medio – repubblicana, usa un alfabeto e una lingua latina. L’importanza dell’area archeologica in loc. Piano della Civita e delle decennali attività di ricerca ivi condotte è data anche dal fatto che, a partire dal I sec. a.C., nell’area ormai abbandonata della città, e precisamente sulla cosiddetta terrazza centrale, venne impiantata una villa rustica, che visse almeno fino al III sec. d.C. Anche questo complesso è oggetto da vari anni di regolari campagne di scavo archeologico, che ne stanno ricostruendo l’intera vicenda storica, fatta di modifiche, ampliamenti, ingrandimenti, come in tutti gli edifici che hanno una lunga frequentazione e utilizzo. La villa, dotata di magazzini e ambienti dove si lavoravano i prodotti agricoli, presenta anche stanze di un certo decoro, con un atrio a quattro colonne di mattoni, un peristilio, un piccolo settore termale e alcuni vani pavimentati a mosaico di tessere bianche e nere con motivi geometrici e pareti rivestite di intonaco dipinto. I materiali recuperati nel territorio nell’ambito delle attività di ricognizione archeologica, consentono di integrare il quadro suggerito dalle indagini della villa collocata sul pianoro.
Ne emerge un panorama fatto di varie tipologie insediative (fattorie, ville rustiche, stationes, qualche santuario) distribuite in maniera abbastanza fitta su colline e pianori, collegate tra loro da una rete stradale capillare facente capo alla Via Latina, che attraversava questo territorio da Ovest ad Est e sul percorso della quale si dislocavano tombe (monumentali e a semplice fossa) e sepolcreti, caratterizzate da differenti rituali funerari (inumazione e incinerazione). I corredi che accompagnavano i defunti, più o meno ricchi (monete, lucerne, oggetti di ornamento personale, giochi, semplice vasellame domestico), contribuiscono a vario titolo alla ricostruzione della vita quotidiana, della società, delle usanze e dell’economia di queste contrade. Il passaggio della via Latina dovette sicuramente contribuire alla floridezza di alcuni insediamenti dislocati lungo il suo percorso, che hanno restituito testimonianze archeologiche che si spingono fino al crepuscolo dell’età antica. Particolare importanza ebbe il sito in loc. Colle Maiorana, per alcuni identificabile con la statio ad Bivium, in prossimità del punto di confluenza con la via Labicana. Tale località, nel corso dei secoli, ha restituito numerose e importantissimo materiale archeologico, purtroppo solo in minima parte confluito nelle raccolte del Museo. Tra i reperti va certamente menzionato un prezioso cippo calcareo, recante un carme epigrafico dedicato a Giano bifronte, invocato con una preghiera in distici elegiaci per far sostenere e garantire la pace (seconda metà del II – inizi del III sec. d.C.). Da un altro insediamento collocato lungo il tracciato della via Latina, proviene un raro frammento di scodella in ceramica sigillata africana (metà IV – prima metà V sec. d.C.), importata dalla lontana Tunisia assieme alle derrate alimentari che da lì erano imbarcate fino a Roma, nel quale è raffigurata, a rilievo, una delle 12 fatiche d’Ercole, quella contro il leone Nemeo, a testimonianza di una cultura ancora positivamente ricettiva dei temi iconografici pagani, anche se in un periodo assai prossimo a quello in cui si stavano creando le condizioni per la nascita e lo sviluppo della vicina catacomba di S. Ilario, posta in prossimità del punto di confluenza tra la via Latina e la via Labicana, nell’attuale territorio di Valmontone.
Testi di Massimiliano Valenti
Ingresso: gratuito