Domenico Palombi
«Le antichità di Roma non furono le sole ad attirare l’attenzione degli umanisti. Rovine antiche, ancora visibili in altre parti d’Italia, suscitarono pure il loro interesse o per le memorie storiche che vi erano connesse, o per l’aspetto singolare, o semplicemente perché erano antiche. In un’epoca in cui ogni città di una certa importanza rivendicava origini che si perdevano in tempi nebulosi, umanisti locali cercarono spesso di sostenere con prove tangibili leggende tramandate oralmente o giunte attraverso ingenui cronisti. Stabilire che una città doveva la sua fondazione a un semidio come Ercole, o a un eroe troiano come Antenore divenne un importante dovere. Sarebbe perciò errato pensare che le antichità che sorgevano fuori di Roma siano state ignorate fino al Rinascimento…».
(Weiss, trad. it. 1989, p. 121).
La straordinaria potenza del fenomeno umanistico si espresse anche nella capacità di coinvolgere realtà geografiche periferiche integrandole in un contesto culturale al tempo stesso articolato ed omogeneo. Per ciò che attiene alla ‘riscoperta dell’antico’, quanto noto per Roma e per le maggiori città italiane può considerarsi valido anche per molti centri minori che, partecipi a vario titolo di più ampie dinamiche politiche ed istituzionali, non sfuggirono alle suggestioni intellettuali e culturali dell’epoca.
In effetti, il patrimonio storico ed archeologico della penisola venne progressivamente integrato nel sistema dei saperi della cultura umanistica: si trattò di una vera rivoluzione che, intervenuta dopo i secoli della cultura Scolastica medioevale, avrebbe caratterizzato la storia di molte regioni italiane fino all’età contemporanea quando, l’‘invenzione borghese’ della provincia, ristabilì una ineludibile gerarchia di conoscenze e di valori culturali tra centro e periferia. Sintetizzando da una recente riflessione di Massimo Miglio sulla Roma medievale e rinascimentale, si può senza dubbio affermare che se la costante ’attualizzazione dell’antico tradisce la forza della sua persistenza’, nell’età rinascimentale esso divenne un ‘modello antropologico’ così profondamente assimilato che ‘per qualche istante a Roma nella seconda metà del Quattrocento si potè tornare a credere che la media tempestas fosse stata solo un accidente, che l’antico fosse tornato, che lingua, costumi, colori, profumi fossero quelli di un passato molto lontato, di un modello ormai realizzato[1]’. Come gran parte dei contesti italiani storicizzati, le principali città lepine non furono estranee a questa tendenza: tra esse Cori (fig. 1), per la consistenza e la qualità del proprio patrimonio monumentale e per la centralità che assunse in alcune contingenze politiche e religiose, fu tra i centri che più precocemente sperimentarono tale fondante fenomeno culturale. Se nessuna testimonianza ci è direttamente pervenuta circa i miti e le leggende con cui l’erudizione dei chierici medievali a Roma e nelle principali città italiane aveva rivestito le rovine antiche dando forma ai mirabilia urbis e alle laudes civitatum, dalla metà del Quattrocento una vasta e consapevole fioritura di studi e documenti investe il patrimonio storico e monumentale di Cori, in un complesso scenario di assetti istituzionali (laici e religiosi) e per il tramite (o con il concorso) di personalità di primo piano della scena culturale e politica del periodo[2]. A partire da questo momento, l’esperienza corese evidenzia con particolare concretezza il processo di costituzione di una vivace e continuativa storiografia locale capace di convogliare nelle grandi opere di erudizione storica ed antiquaria del Settecento e dell’Ottocento un ricchissimo bagaglio di informazioni storiche e prosopografiche, di notizie relative a monumenti, documenti epigrafici e materiali antichi e medievali[3]. La definizione dei temi portanti della storiografia contemporanea sul Lazio meridionale deve molto all’opera dello storico corese Antonio Ricchi, stampata a Napoli nel 1713: pure caratterizzata da una debole impostazione metodologica e da una erudizione più che modesta, la ricostruzione storica del Ricchi individuava una inedita omogeneità della regione entro la quale particolare valore si attribuiva ai Monti Lepini, la ‘reggia dei Volsci’, identificati quale sede dall’antichissimo popolo che, nella visione dello storico settecentesco, si dissolse, dopo due secoli di conflitti, soggiogato tanto dalle armi quanto dalle istituzioni e dalla cultura di Roma[4]. Nell’ampia sezione dell’opera che il Ricchi dedica alla sua città d’origine, tra gli scarsissimi riferimenti a precedenti fonti locali, spicca l’Historia corana del francescano corese Sante Laurienti, completata nel 1637 e dedicata – come si confaceva ad un comune soggetto, nullo medio e sin dal 1410, al Popolo romano – «ad S.P.Q.R. atque ad Illustrissimos Dominos Urbis Conservatores»[5]. Si tratta della più ampia e completa storia corese pervenuta: essa valorizza, nell’ottica di una ricostruzione di ‘storia globale’ che dalle origini giunge all’epoca della compilazione, le fonti classiche greche e latine, le cronache medievali, una ampia bibliografia umanistica precedente, gli archivi e le fonti storiche locali allora disponibili nonchè il ricco patrimonio monumentale ed epigrafico cittadino di età romana, medievale e contemporanea[6]. Tra le molte citazioni di documenti precedenti, Laurienti ricorda l’opera storica di Ulisse Ciuffa, notaio longevissimo (1532 circa – 1634) attivo tra Roma e Cori[7] e autore, tra altre opere di carattere antiquario e prosopografico, di “un picciolo libro di memorie”redatto sotto il pontificato di Sisto V (1585-1590)[8]. La perdita dell’opera del Ciuffa dovrà riguardarsi con particolare rammarico per il carattere fondativo ad essa riconosciuto e per la dovizia di informazioni che, stando alle frequentissime citazioni, essa dovette trasmettere alla storiografia posteriore. Tale profonda conoscenza della storia e della archeologia locale – ma pure il ruolo sociale rivestito dal personaggio nel contesto non solo corese – induce ad identificare nel Ciuffa – per il tramite della comunità agostiniana – il probabile referente a Cori di Angelo Rocca, il colto vescovo agostiniano fondatore della Biblioteca Angelica che, negli stessi anni (tra 1583-1584 e, successivamente, dal 1586), avviava la redazione di un ‘atlante’ delle città agostiniane d’Italia e, a tal fine, promuoveva la raccolta di vedute e schede storico-descrittive ad esse relative[9].I materiali riguardanti Cori comprendono cinque fogli contenenti una sintetica rassegna sulle origini mitiche, la storia e i monumenti della città (con puntuali riferimenti a testi letterari ed epigrafici antichi) nonché notizie relative alla demografia, agli assetti istituzionali e religiosi contemporanei con citazioni di eminenti personaggi del XV e XVI secolo; nella veduta, l’immagine della città rinascimentale assume una specifica individualità nella indicazione delle principali chiese cittadine ma, ancor di più, attraverso la dettagliata caratterizzazione delle antiche mura e dei terrazzamenti urbani in opera poligonale, nella raffigurazione dei templi pagani e dei principali complessi monumentali romani doviziosamente accompagnati da scritte identificative (fig. 2)[10]. La veduta di Cori commissionata dal Rocca si pone all’inizio della successiva tradizione di vedute della città che, dopo esperienze più prettamente locali (è il caso della ’Vera effigies S. Olivae nobilis Anagninae Virginis primariae protectricis Civitatis Corae ante Romam conditam a Dardano aedificatae (sic)’, 1758: fig. 3), conobbe ben più qualificate esperienze con J.J. Middleton (1814) e L. Rossini (1824-1826) (figg. 4-5)[11]. È possibile ipotizzare, dietro la sintesi di informazioni storiche ed antiquarie espresse dai materiali commissionati dal Rocca, una personalità di particolare rilievo della comunità corese, un cultore delle memorie cittadine direttamente impegnato nella composizione di opere storiche come fu il notaio Ulisse Ciuffa. D’altra parte, la consuetudine dei notabili locali di redigere memorie e diari relativi alla storia della città risale, documentatamente, già alla fine del Quattrocento come testimonia il Diario corese che, sotto il pontificato ‘armato’ di Alessandro VI, il notaio Antonio Fasanella dedicò alle «tribulationi havute in nella terra de Core imprimo et inella Italia»: in 35 brevi paragrafi si riportano gli eventi che coinvolsero Cori e la regione romana – nel più ampio contesto dello Stato della Chiesa e dell’Italia – tra il 1495 e il 1503 e, in particolare, gli effetti disastrosi che ebbero in quegli anni le campagne militari francesi e spagnole nella penisola[12]. Il Diario del Fasanella aggiunge molti elementi di cronaca locale a quanto già documentato, per gli stessi anni, nel Diario romano redatto da Sebastiano di Branca Tedallini e fornisce importantissimi elementi per la ricostruzione delle conseguenze che ebbe sull’area lepina la spedizione condotta da Carlo VIII contro Napoli epicamente narrata da André de la Vigne ne Le Voyage de Naples (post 1495) ove, più sinteticamente, si ricordavano le principali tappe dell’avanzata delle truppe francesi da Roma (partenza il 28 gennaio 1495) a Napoli (arrivo il 22 febbraio) passando per Marino e Velletri (ove avvenne la fuga del Valentino) e poi lungo il tracciato della Via Latina toccando Monte Fortino (odierna Artena, assediata e sottoposta ad un feroce massacro), Valmontone, Ferentino e Veroli[13]. L’integrazione della cronaca locale nel più vasto contesto storico ‘nazionale’ trovava fondamento nella innovativa visione storiografica di recente proposta da Biondo Flavio nella Italia illustrata (iniziata nel 1448, compiuta dopo diverse redazioni nel 1453 e stampata postuma a Roma, in una forma non completa, nel 1474) ove si trova – come per tanti altri centri italiani minori – il primo riferimento della letteratura ‘ufficiale’ alla città di Cori: «Quintoque ab ea [Velitrae] miliario ad sinistram distat vetustissimi nominis oppidum Cora ab uno trium fratrum condita, quorum alius Tibur aedificavit, alius monti proximo Catillo cognomen dedit: de quo Verg. in. VII: Tum gemini fratres Tyburtia moenia linquunt, fratris Tyburti dictam cognomine gente, Catillusque acerque Corax, argiva iuventus». L’indicazione della posizione geografica (tra Velletri e Sermoneta) e l’evocazione delle sue antichissime origini (si cita Eneide 7.670-673) apparivano sufficienti ad identificare il centro lepino in una prospettiva capace di connettere passato e presente[14]. Allo studio delle fonti classiche, la cultura umanistica seppe affiancare, con inesausta passione, la ricerca, la raccolta, la documentazione e lo studio dei materiali e dei monumenti antichi. Le scoperte archeologiche, come documentato in molti contesti italiani, non assunsero mai criteri di pianificazione e sistematicità ma rappresentarono, tuttavia, un argomento narrativo non secondario e di persistente memoria; sovente, i rinvenimenti delle vestigia del passato costituirono occasione di formazione di una comunitaria identità etica e culturale nonché strumento di connessione clientelare con importanti rappresentanti dell’aristocrazia romana e della corte pontificia. Esemplari, nel caso di Cori, appaiono le informazioni fornite da Sante Laurienti circa il rinvenimento delle statue dei Dioscuri presso il tempio del foro della città antica o quella del tesoretto di monete d’oro presto passate nelle collezioni di Camilla Peretti, sorella di Sisto V, o la vicenda, ora meglio nota, del rinvenimento e del trasferimento a Roma della statua di porfido della Minerva Capitolina, scoperta a Cori intorno al 1583, acquisita da Giovan Giorgio Cesarini entro il 1585 e passata a decorare la facciata del Palazzo Senatorio in Campidoglio nel 1593 (fig. 6)[15]. La consistenza di tali scoperte e le conseguenze della dispersione dei materiali rinvenuti non sono sempre facilmente valutabili: andrebbe considerata, ad esempio, l’eventuale provenienza dalla città di origine e dai possedimenti della famiglia di alcuni dei materiali della celebre raccolta di sculture della Collezione Spada, in gran parte ricevute – tra il 1636 e il 1643, prima per matrimonio e poi per testamento – dalla famiglia corese dei Veralli che, più di un secolo prima, dalla protezione del cardinale Alessandro Farnese (1468-1549), poi papa Paolo III, aveva ottenuto una rapida affermazione nella curia e nelle magistrature romane[16]. Al contrario, tra i materiali antichi che, per primi, stimolarono una infaticabile e più sistematica ricerca, devono considerarsi le iscrizioni, documenti di riconosciuta rilevanza storica, antiquaria, filologica e linguistica ma, al tempo stesso, punto di riferimento per una nascente epigrafia monumentale ispirata alle forme classiche; la loro collazione in raccolte e repertori precocemente elaborati costituisce un sicuro indizio della presenza di antiquari ed archeologi anche nei centri italiani minori[17]. Se il dossier epigrafico corese venne (deliberatamente?) ignorato da Ciriaco di Ancona nel viaggio intrapreso nel 1434[18], alcune iscrizioni di Cori si trovano documentate dall’insigne architetto, filologo e letterato Fra’ Giovanni Giocondo da Verona (c. 1433 – 1515) che per primo le inserì nella lodatissima silloge epigrafica redatta negli anni ‘70 e ‘80 del Quattrocento e dedicata a Lorenzo il Magnifico nel 1488-1489 (fig. 7)[19]. Contemporaneamente, i materiali epigrafici coresi si ritrovano nel cd. Liber Redianus, scritto a Venezia nel 1474 ed attribuito ad Alessandro Strozzi, l’autore della celebre ‘pianta archeologica’ di Roma redatta a corredo di qualche importante descrizione dei monumenti romani, a partire, forse, da una veduta che accompagnava la Roma instaurata di Flavio Biondo (fig. 8)[20]. Allo stesso modo, e circa a partire dagli stessi anni, i monumenti coresi conobbero una sensazionale valorizzazione da parte dei massimi protagonisti della scena artistica del periodo: i materiali documentari prodotti in questo periodo possono, a buon diritto, considerarsi all’origine della straordinaria fortuna conosciuta dai monumenti di Cori, oltre due secoli e mezzo più tardi, per il tramite di Johann Joachim Winckelmann e di Giovanni Battista Piranesi. Accantonata la tradizionale presenza (dalla storiografia locale pervicacemente difesa) di Raffaello a Cori, è ormai ampiamente testimoniata quella dei Sangallo – tra i più fedeli collaboratori dell’Urbinate – impegnati nel rilievo e nella documentazione dei resti dei templi dell’antica Cora[21]. Ai già noti disegni dei monumenti coresi realizzati da Antonio da Sangallo il Giovane (1484-1546) – dieci studi su due fogli della Collezione degli Uffizi (Fig. 9)[22] -, si sono recentemente aggiunti quelli realizzati da Giovanni Battista da Sangallo (1496-1548) – cinque fogli ora nella Library del RIBA, nipote di Giuliano e Antonio da Sangallo e fratello minore di Antonio da Sangallo il Giovane, primo assistente di Raffaello nella Fabbrica di S. Pietro dal 1516 e suo successore alla direzione del cantiere dal 1520[23]. Il rapporto tra i due gruppi di disegni – contenenti la planimetria, l’alzato e la decorazione architettonica del tempio dorico dell’acropoli detto ‘di Ercole’ e la planimetria del tempio corinzio dei Dioscuri nel foro dell’antica città – appare immediato per ciò che riguarda scelta e rappresentazione dei soggetti; tuttavia, la differente tipologia (schizzi a mano libera quelli di Antonio; versione in pulito con uso di compasso e squadra quelli di Giovanni Battista) ed alcune significative varianti interne inducono ad ipotizzare la indipendente realizzazione dei disegni eseguiti dal vero (meno probabilmente da una fonte comune precedente) in una ricognizione a Cori databile circa al 1514[24]. Lo studio accurato dei templi coresi da parte degli architetti fiorentini deve avere avuto una concreta motivazione: il principio di ‘utilità’ dell’osservazione dei resti antichi – già consapevolmente espresso da Leon Battista Alberti nel De re aedificatoria (completato nel 1452)[25] – finalizzava lo studio delle forme e della sintassi dell’architettura antica alla innovativa e variegata progettazione del periodo interessata, in particolare, all’uso degli ordini architettonici nelle loro più varie combinazioni. Tale studio assunse con Raffaello un carattere sistematico sia nei metodi della documentazione (rilievo architettonico di pianta, alzato e spaccato con proiezione ortogonale, eseguito con bussola e quadrante) sia nella estensione del campione d’indagine che, analizzato direttamente, coinvolse un nutrito gruppo di collaboratori[26]. La base teorica di tale ricerca era costituita dai reiterati ed approfonditi studi su Vitruvio che avevano condotto alla pubblicazione dell’editio princeps del De architectura da parte di Giovanni Sulpicio da Veroli (1486-1492) e alla prima edizione illustrata dell’opera curata da Fra’ Giocondo (1511) mentre si avviava il progetto di illustrazione della traduzione in volgare dell’opera vitruviana che Fabio Calvo da Ravenna preparava per Raffaello (circa 1514)[27]. Considerata la precoce conoscenza delle antichità coresi da parte di Fra’ Giocondo, è assai probabile che a lui si debba il suggerimento a visitare e documentare i monumenti di Cori raccolto dai più stretti collaboratori di Raffaello del quale il veronese era stato nominato collega ‘anziano’ alla Fabbrica di S. Pietro nel 1513[28].
Eppure la cerchia di Raffaello non costituì la prima generazione di ‘visitatori eccellenti’ a Cori: eminenti figure della scena culturale, politica e religiosa romana ed italiana ebbero occasione, in quegli stessi anni, di conoscere – e di far conoscere – il patrimonio storico, archeologico e monumentale della città lesina. Nel giugno del 1507, tornando a Roma da Napoli dove era stato eletto Priore Generale dell’Ordine Agostiniano, aveva soggiornato nel convento di Cori Egidio da Viterbo (1469-1532): tra i massimi eruditi del Rinascimento e animatore dei principali circoli intellettuali di Roma e di Napoli, il Cicero Christianus, come encomiasticamente era definito dai suoi contemporanei, avrà certamente apprezzato la visita alla città ricordata dall’amato Virgilio e al convento che si riteneva adiacente ai resti di un antico tempio di Giano, la figura divina alla quale egli stesso avrebbe attribuito una fondamentale funzione simbolica[29]. Il convento agostiniano (fig. 10) che ospitò Egidio era stato da poco edificato per volontà di un illustre predecessore del viterbese alla guida dell’Ordine, il corano Ambrogio Massari (Cori, circa 1432 – Roma, 1485) al
quale può ora riconoscersi un ruolo fondamentale nella valorizzazione del patrimonio storico locale: artefice di una inarrestabile ascesa nelle gerarchie agostiniane (Priore Generale dal 1476) e di una fortunatissima carriera nella corte pontificia di Sisto IV, il ‘Coriolano’ fu teologo e studioso di vasti interessi culturali e riconosciuta dottrina, filosofo allo Studium Urbis, ispiratore di importantissimi programmi architettonici e artistici a Roma e nel Lazio[30]. L’opera (non meno della carriera) di Massari era stata sostenuta – politicamente e finanziariamente – da Guillaume d’Estouteville, «potens et nummosissimus heros»[31], cardinale di Rouen, vescovo di Ostia e Velletri, Camerlengo di S.R. Chiesa, mecenate munifico e colto, possessore di una ricca biblioteca e di una notevole collezione di preziosissime antichità, il quale nella regione romana perseguiva il progetto della costituzione di una personale signoria e a Cori sperimentava nuove forme di controllo istituzionale sulle magistrature locali[32].
Il contributo offerto da Massari (e dall’Estouteville) alla definizione dell’identità municipale e il ruolo attivo da lui giocato nella costituzione di una nascente erudizione patria si materializza, in particolar modo, nel processo di risemantizzazione di uno dei luoghi più significativi della sua città di origine: nella costruzione del nuovo complesso conventuale di S. Oliva (1468-1480), i programmi architettonici e la decorazione scultorea e pittorica si fondono, reinterpretandoli, con le stratificate memorie antiche e medievali del sito attraverso complesse simbologie ispirate ai principi estetici, teologici e filosofici espressi dallo stesso Massari nelle sue opere[33]. Massari, d’altra parte, era stato docente di filosofia naturale alla ‘Sapienza’ negli anni settanta del ‘400 quando nello Studium Urbis spiccavano le personalità di Domizio Calderini, Martino Filetico e, soprattutto, di Pomponio Leto il quale dedicava i suoi seguitissimi corsi umanistici al commento degli autori antichi e alle antichità di Roma[34]. Assume dunque particolare rilievo la presenza a Cori – ormai certa – del grande antiquario ed erudito il quale, secondo una inveterata consuetudine, lasciò la propria firma graffita sulle pareti del suburbano oratorio della SS. Annunziata. La cappella conserva un importante ciclo di affreschi che, nella regione romana, documenta il passaggio della pittura tardogotica allo stile rinascimentale, committenza del cardinale castigliano Pedro Fernández de Friás (entro il 1420) completata (entro gli anni quaranta del Quattrocento) dal Comune di Cori e dai cardinali castigliani Alfonso Carrillo de Albornoz e Juan Cervantes de Lora (fig. 11)[35]. Il graffito pomponiano (parete orientale della cappella, a sinistra della porta della sagrestia), che si legge tra altre numerose firme con date comprese tra il 1455 e il 1495, è disposto su tre righe e presenta caratteri cronologicamente compatibili con l’identificazione ora proposta (fig. 12)[36]. Sotto l’inequivocabile PO(M)PONIVS si leggono i nomi IVLIANVS e PE++SIV(?)S che, inevitabilmente, orientano la ricerca nell’ambito dell’Accademia Romana fondata – e carismaticamente guidata – dallo stesso Pomponio Leto[37]. Recentissimi approfondimenti[38] consentono di identificare il primo personaggio con Iulianus Cecius (morto nell’aprile 1513) poeta, canonico lateranense e accademico pomponiano (meno probabilmente con Giuliano Marasca, chierico e nipote di Bartolomeo Marasca) e il secondo personaggio (che si cela sotto la firma corrotta) con Petreius, tra i congiurati romani del 1468 contro Paolo II, segretario del cardinale Giacomo Ammannati Piccolomini ed ammiratore ed amico di Poliziano. Se, al contrario, come già proposto, si dovesse leggere l’antroponimo Perusius/Perusinus si potrebbe pensare anche ad Astreus Perusinus poeta, amico di Bartolomeo Sacchi ‘Platina’, membro dell’Accademia Pomponiana e censor del sodalizio nel 1482 e 1486[39]. La visita all’oratorio corese dovette rientrare in una più completa ricognizione dei principali monumenti cittadini da parte di accademici e giovani legati all’ambiente pomponiano negli anni ottanta del Quattrocento; questi, insieme agli altri contemporanei o di poco successivi frequentatori eccellenti delle antichità coresi – personaggi al centro di una vasta rete di relazioni intellettuali ed istituzionali – bene rappresentano il processo di integrazione del patrimio storico locale nel complesso di conoscenze condivise dall’ambiente culturale umanistico italiano.
NOTE
1 Miglio 2003, le citazioni, rispettivamente, alle pp. XII, XXXIV e XLI. Per un orientamento sul fenomeno della riscoperta umanistica dell’antico, dopo Castagnoli 1962 e Weiss 1989 (part. i capp. V-IX) vedi, tra la vastissima bibliografia, Cantino Wataghin 1984; Mazzocco 1987; Danesi Squarzina 1988; Mueke 2003; Bianca 2005; Cavallaro 2008. Alle origini e allo sviluppo del fenomeno che «costruisce la memoria dell’antico nel suo uso politico e religioso» guida, in una prospettiva storica più ampia, Miglio 1984, 2003 e 2008.
Danesi Squarzina 1988; Mueke 2003; Bianca 2005; Cavallaro 2008. Alle origini e allo sviluppo del fenomeno che «costruisce la memoria dell’antico nel suo uso politico e religioso» guida, in una prospettiva storica più ampia, Miglio 1984, 2003 e 2008.
2 Alcuni dei materiali considerati in questa sede sono stati analizzati, in un più ampio contesto, in Palombi 2008.
3 Punto di arrivo, in tale processo, deve considerarsi l’opera di Gaetano Moroni (Moroni 1840-1861); per Cori: vol. 89, 1858, pp. 160- 211), summa di erudizione storica ed antiquaria esaltante la centralità culturale e politica del papato e della chiesa cattolica nei decenni del Risorgimento e dell’Italia unita. Sul personaggio, “primo aiutante di camera” di Gregorio XVI, e la sua enciclopedica opera: Croci 1948; Sinopoli 1993.
4 Ricchi 1713. Il Ricchi pare non essersi giovato della vasta dottrina profusa nel Vetus Latium profanum et sacrum dal setino (ma di padre corano) Pietro Marcellino Corradini che pubblicò i primi due volumi nel 1704 e 1705; l’opera fu completata, su materiali del Corradini, da Giuseppe Rocco Volpi che stampò altri nove volumi (Volpi 1704-1745; quelli già editi dal Corradini furono di nuovo stampati nel 1748 con il titolo De primis antiqui Latii populi, urbibus, regibus…): Bertoni 1983; cfr., con ulteriori materiali, la introduzione a Corradini 1995, pp. VII-XXXVII (riedizione in traduzione italiana del De civitate et ecclesia setina, Roma 1702). Il Lazio meridionale aveva avuto una trattazione molto sintetica nel Latium di Athanasius Kircher (Kircher 1671, lib. quartus, pars IV: De Volscorum regno, veterumque in eo urbium situ e lib. Quintus: Ager Pomptinus; con la relativa carta Regionis Volscorum): qui già si attribuivano ai Volsci i Monti Lepini e la Palude Pontina.
5 Laurienti 1637.
6 Per il ruolo svolto dall’opera del Laurienti nella trasmissione di materiali antiquari, esemplare il caso della documentazione epigrafica che, attraverso la catena di storici locali raggiunse Pirro Ligorio, Onofrio Panvinio, Metello, Gruterio, Muratori, Giuseppe Volpi, Carlo Fea, Antonio Nibby, fino a Theodor Mommsen: Salomies 2004; cfr. Buonocore 2003, pp. 331-332, n. 995.
7 Su Ulisse Ciuffa v. Serangeli, Agostini 2006, pp. 36-39 e ad indicem.
8 Laurienti 1637, cap. LXIV: De Ulixe Ciuffio scriptore corano e passim; Casimiro da Roma 1744, p. 91; all’inizio dell’Ottocento il manoscritto di Ciuffa era in possesso della famiglia Marchetti: Viola 1825, p. 75.
9 Sul personaggio e il suo preogetto incompiuto: Serrai 1983; Munafò – Muratore 1989, pp. 13-21; Serrai 1991, part. 27 ss.; Muratore – Munafò 1991, pp. 11-24.
10 I materiali relativi a Cori si trovano in Archivio Generalizio Agostiniano, Collezione Rocca P/21 (la veduta) e Carte Rocca – Cori. T 19.1-5 (il testo). La cronologia dei documenti è confermata dagli stessi riferimenti interni, in particolare la menzione delle carriere ecclesiastiche del cardinale Gerolamo e del vescovo Paolo Emilio Veralli e del vescovo Giovanni Amati (morti, rispettivamente, nel 1555, post 1550 e nel 1587). Per la veduta, tuttavia, si evidenziano alcune incongruenze nella rappresentazione di edifici da tempo non più esistenti all’epoca del Rocca e per la mancanza di altri che erano, al contrario, già stati realizzati (per tali motivi si è recentemente suggerita una datazione del disegno agli anni 1521-1542: De Rossi, Di Meo 2009, p. XXXVI). Si potrebbe verosimilmente ipotizzare che, pure redatta nel contesto dell’atlante promosso dal Rocca del quale parrebbe coerente ed organica componente, la veduta sia stata realizzata sulla scorta di documenti iconografici più antichi.
11Per la riproduzione e la valutazione ‘archeologica’ di questi documenti vedi Palombi 2000.
12 Cfr. Pesiri 2003. Sul genere delle Memorie, che conobbe particolare fortuna a partire dalla fine del XVI secolo, vedi Claridge 2004.
13 Per il Diario romano di Sebastiano di Branca Tedallini, cfr. Piccolomini 1904-1911. Per Le Voyage de Naples di André de la Vigne, cfr. Slerca 1981, pp. 240-243 (vv. 4088-4199), cfr. p. 341 s.
14 Blondi Flavii Forliviensis 1510, p. 65r (il tema ritorna in una lettera del Biondo a Gregorio Lolli Piccolomini del 12 settembre 1471: Nogara 1927, p. 200). Sull’opera, di recente: Cappelletto 1992; Fubini 2003, pp. 53-76 con ulteriore bibliografia. Per l’uso nell’Italia illustrata di Virgilio e del relativo commento di Servio: Clavuot 1990, pp. 230- 240 (part. 233 per Cora). La tradizione corografica antica recuperata dal Biondo fu immediatamente recepita nella Descriptio totius Italiae del domenicano palermitano Pietro Ranzano (post 1474) diretto precedente della notissima Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti (1526): cfr. Di Lorenzo, Figliuolo, Pontari 2007, part. p. 116 s. per Cori ‘haud ignobile oppidum’.
15 Per i Dioscuri: Laurienti 1637, cap. III De antiquitatibus positis in ea, f. 5v; Palombi – Leone 2007. Per le 1700 monete rinvenute nel 1589: Laurenti 1637, cap. XXXVI De thesauro Core invento. Sulla storia moderna della Minerva Capitolina vedi, recenti e con bibliografia, Ensoli , Palombi 1999 e Sickel2008.
16 Sulla famiglia Veralli e le sue vicende collezionistiche vedi, di recente e con bibliografia: Cannatà, Vicini 1992, part. pp. 90-103; D’Amelia 1993; Picozzi 2004; Vicini 2006, p. 45; Guerrieri Borsoi 2006; Benocci 2007, pp. 113 s.
17 Sulla nascita dell’epigrafia classica vedi Weiss 1989, cap. XI: Il sorgere dell’epigrafia classica; Grafton 1991, pp. 23-75; Boriaud 1994; Stenhouse 2005, pp. 21-73.
18 Solin 1998.
19 Sui vasti interessi di Fra’ Giocondo: Fontana 1986; Pagliara 2001. Sulla sua raccolta epigrafica (che parrebbe aver conosciuto due o tre ulteriori stadi di completamento fino al 1507): Carini 1894, part. 246- 258; Ziebarth 1905, part. 221-345. Le iscrizioni coresi sono CIL X. 6520, 6517, 6511, 6514, 6529 note sin dalla più antica redazione della silloge contenuta nel Codice di Verona, Biblioteca Capitolare, Ms. 270, ff. 62- 63 (1475 circa con aggiunte tra 1489 e 1492; di mano di Bartolomeo Sanvito e già appartenuto a Scipione Maffei: Wardrop 1963, pp. 19-35) e ripetute nella seconda redazione della silloge (1497-1498) del Codice Magliabecchiano cl. XXVIII.5, ff. 106r-106v della Biblioteca Nazionale di Firenze. Cfr. di recente Koortbojian 1993 e 2002. Sull’interesse del Magnifico per le epigrafi antiche: Smith Fusco – Corti 2006, part. cap. 4.2 e 5.1.
20 Per la paternità della raccolta epigrafica nel cd. Liber Redianus (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Codice Redi 77; l’iscrizione
corese CIL X. 6526 si trova a c. 186v num. moderna, 172v num. antica): Ziebarth 1905, p. 213-219, p. 218 e 294 per Cora. Sulla veduta di Roma del 1474 e la composizione del Codice Redi: Scaglia 1964. Sul codice, da ultima e con bibliografia, Bertolini 1994.
21 L’esistenza di disegni dei monumenti coresi attribuiti a Raffaello (intorno al 1515) si fonda sull’autorità di Johann Joachim Winckelmann (Winckelmann 1784, pp. 50-54) che riteneva di riconoscerli tra quelli della collezione del barone Philipp von Stosch (1691-1757; sul personaggio: Lewis 1967; Borroni Salvadori 1978; Pirzio Biroli Stefanelli 1996; Sattel Bernardini 1996, p. 724 s.) venduti nel 1769 e in gran parte confluiti nelle collezioni imperiali dell’Albertina di Vienna dove sono stati invano ricercati (cfr. Frommel, Ray, Tafuri 1984, pp. 416-418 (A. Nesselrath); Nesselrath 1993, p. 54; Di Teodoro 2003, pp. 42 s.). I disegni sono stati rintracciati nel 2005 nella biblioteca di Pallinsburn House, nel Northumberland (UK) e acquisiti, nel maggio 2006, dalla British Architectural Library del Royal Institute of British Architects (RIBA). Una analisi completa del ritrovato codice Stoch si deve a Campbell, Nesselrath 2006: si tratta di 23 fogli (circa mm 278 x 210) per un totale di 46 pagine di cui 43 recanti raffinati disegni misurati relativi a 16 monumenti di Roma e di Cori datati, dagli editori, circa al 1520.
22 Bartoli 1914-1922, iii, tavv. ccxli-ccxlii, figg. 478-479; Vasori 1981, pp. 118-122, nn. 92-93. Cfr. Frommel 1994.
23 Sulla vita, l’opera e i rapporti ‘professionali’ di Antonio da Sangallo il Giovane e del fratello minore Giovanni Battista, vedi: Bruschi 1983 e Pagliara 1983; importanti contributi sono raccolti in Spagnesi 1986.
24 Costituisce un concreto termine cronologico di riferimento per la datazione dei disegni, l’ispirazione di Antonio da Sangallo il Giovane al tempio dell’acropoli di Cori per alcuni elementi architettonici utilizzati nel piano terra di Palazzo Farnese (ante 1514-1515): cfr. Frommel 1981, part. 168 e nota 218, figg. 41-44.
25 Orlandi, Portoghesi 1966, pp. 441-443.
26 Burns 1984; Nesselrath 1984; Nesselrath 1986; Bruschi 1989.
27 Per le edizioni vitruviane: Pagliara 1986, part. 32-55. Inoltre: Fontana 1986 (per il Vitruvio di Fra’ Giocondo); Morachiello, Fontana 1975 (per Fabio Calvo); Gatti Perer, Rovetta 1996, parte seconda (per Cesare Cesariano).
28 Sui tempi ed i protagonisti dei lavori alla Fabbrica di San Pietro vedi, di recente e con bibliografia, Benedetti 2000 e Marcucci 2000.
29 La presenza a Cori di Egidio è testimoniata da Laurienti 1637, cap. LVIII De P. Magistro Fr. Ambrosio Massario Corano Ordinis Emeritarum sancti Augustini Priore Generali, cc. 60v-61v. Per un profilo del complesso personaggio e per la sua attitudine nei confronti dell’antichità: Whittaker 1983; Ernst, Foà 1993.
30 Su Ambrogio Massari vedi, con fonti e bibliografia, i contributi raccolti in Frova, Michetti, Palombi 2008. Cfr. Bianca, Cavallaro 2009 e Scorza, Barcellona 2010.
31 Fulvio 1513, f. 64v.
32 Sulla figura, di primissimo piano nell’Europa del secondo Quattrocento, di Guillaume d’Estouteville vedi, con bibliografia precedente, Gill 1992 e Esposito 2008; per il ’governo dei cardinali’ inaugurato dall’Estouteville: De Rossi 2008. Per l’attività edilizia pubblica, religiosa e privata dell’Estouteville a Roma: Benzi 1990, ad indicem; Antoniutti 2003; Simoncini 2004, ad indicem. Sulla biblioteca: Esposito Aliano 1980. Per le collezioni: Magister 1999, p. 165, 2001, p. 124-125.
33 Sul complesso monumentale di S. Oliva vedi Biferali 2002 e ora Palombi, Pistilli 2008. Cfr. Gandolfo 2010. Il complesso agostiniano di Cori parrebbe rivelare gli elementi di un consapevole uso dell’antico in quella chiave che costituisce «secondo la migliore cultura umanistica, la riappropriazione di un dato antiquario connotato di forti valenze politiche»: Miglio 1984, p. 94.
34 Per la docenza di Pomponio Leto alla “Sapienza”: Accame Lanzillotta 2000.
35 Sull’oratorio della SS. Annunziata di Cori: Pistilli 1999-2002; Pistilli, Petrocchi 2004; Pistilli c.s.
36 Palombi 2008, p. 104; la prima segnalazione si trova in Hermanin 1906, p. 50 (con lettura parziale).
37 Su Pomponio Leto, dopo Zabughin 1909-1912, basti il rimando a Accame Lanzillotta 1997; Niutta 2002; Lovito 2002, e i contributi raccolti in Antiquaria a Roma 2003.
38 Bianca, [Cavallaro] 2009, p. 24 s.; Cavietti c.s.
39 Sui personaggi citati vedi Bracke 1992, pp. 121-124 (Giuliano Cecio), 129 (Giuliano Marasca), 133-134 (Astreus Perusinus), 136 s. (Petreio), cfr. p. 126 s. (per una serie di epistole relative ad una analoga gita estiva fuori Roma); Bianca 1992 (Petreio). Sull’Accademia Romana di Pomponio Leto, i componenti, i frequentatori, le attività culturali e le turbolenti vicende politiche vedi, per tutti, Palermino 1980.
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