Le strutture in opera poligonale giunte sino a noi, con la loro maestosa imponenza, testimoniano l’abilità degli antichi costruttori. I blocchi erano solitamente cavati subito a monte della linea dove si voleva erigere la muratura: una volta inciso il banco nel punto prescelto, gli operai conficcavano nella roccia dei cunei di legno che, una volta bagnati, dilatandosi per l’acqua assorbita, favorivano il distacco dei blocchi. Questi, dopo una prima sbozzatura, venivano trasportati fino al punto previsto per la loro posa, per lo più facendoli scivolare su rulli lungo il pendio: qui, una volta sagomati per adattarli a quelli già in opera, erano montati e lisciati. Man mano che il muro cresceva, la zona alle sue spalle veniva riempita con terra e scaglie di calcare, formando così il terrapieno di spalla cui la struttura si appoggiava. La cortina esterna poteva essere più o meno rifinita, secondo la funzione cui era destinata. La linea primaria delle mura, quella che recingeva la città, è sempre molto curata e ben lisciata, a motivo di decoro urbano ma soprattutto per non offrire appigli a eventuali nemici, mentre settori marginali o interni possono presentare un aspetto più trascurato. Il circuito murario in opera poligonale dell’antica Signia, lungo poco più di 5 Km, è perfettamente intatto e visitabile per quasi tutta la sua estensione. Nella cinta muraria si aprono numerose porte di diversa grandezza, poste a servizio delle strade cittadine. Gli accessi principali si aprono tutti nel breve tratto trasversale di un dente formato dalla linea delle mura, secondo uno schema dettato dalle necessità di difesa. In caso di assedio infatti le porte costituivano i punti più vulnerabili del circuito; grazie a questa conformazione, i difensori della città potevano sottoporre gli assalitori ad un pericoloso tiro incrociato, che permetteva di colpire i nemici tanto di fronte quanto di lato rendendo loro assi rischiosa ogni manovra di fronte all’entrata. I fianchi delle porte sono costituiti da due o tre filari di grossi blocchi perfettamente lavorati, che vanno a restringersi verso l’alto con l’evidente scopo di ridurre l’ampiezza dell’apertura nel punto di messa in opera della copertura; questa è formata da una coppia di architravi monolitici affiancati, lunghi solitamente intorno ai tre metri. Oltre alle porte principali esistevano degli ingressi secondari, che chiamiamo posterule: aperte sulla stessa linea delle mura e di ampiezza più limitata, esse erano probabilmente attraversate da viabilità secondarie, forse semplici sentieri, che consentivano a uomini e bestiame spostamenti di piccolo raggio fra la città e il suo immediato suburbio.Tra gli ingressi principali alla città, ancora conservate sono: Porta Foca, Porta dell’Elcino e Porta Saracena, divenuta il simbolo della città. Di posterule se ne conservano due nel tratto delle mura a monte di Porta Saracena, mentre un’altra, denominata Porta San Pietro, situata al di sotto dell’omonima chiesa, è tra le più suggestive con la sua terminazione ad ogiva.
La zona di Porta Maggiore e il lungo tratto di mura conservate nei giardini comunali a destra di questa è quella nella quale è ancora oggi possibile apprezzare a pieno la qualità architettonica e monumentale dell’intervento di risistemazione tardo-repubblicana dell’intero fianco meridionale delle fortificazioni della città. Il settore ad est della porta conserva infatti in ottimo stato la poderosa struttura in opera quadrata, impostata su uno zoccolo in opera poligonale, realizzato con blocchi non rifiniti nei giunti ma accuratamente regolarizzato nella sua terminazione superiore con lastre e blocchetti per rendere omogeneo il piano di appoggio alla struttura di alzato. Il fulcro del rifacimento consistette nella realizzazione di una monumentale porta urbica che, sebbene rimaneggiata, costituisce ancor oggi il principale accesso al centro storico: la Porta Maggiore.
Si trattava di una porta “gemina”, ovvero costituita da due grandi arcate affiancate, delle quali sopravvive oggi quella di sinistra. La porta, aperta in una profonda rientranza, era inquadrata e protetta da due ante, delle quali restano alcune murature in opera quadrata di quella di destra.
Certamente uno dei monumenti più famosi della città, riprodotta e descritta da studiosi e viaggiatori fin dagli inizi dell’800. La porta si apre, in una situazione orografica di forte pendenza, in un ampio dente: la sua entrata, dalla caratteristica forma rastremata, è coperta da due giganteschi architravi monolitici, lunghi più di 3 metri ciascuno.
All’interno, il lato a monte del passaggio è protetto da un lungo setto murario, la cui funzione era quella di contenere il terrapieno di spalla del tratto delle mura soprastante, evitandone il suo dilavamento nel corridoio di accesso.
Si noti come in questo setto, pur strutturalmente legato alla porta e alle mura ad essa prossime, e dunque certamente a queste coevo, la tecnica costruttiva mostri un poligonale assai meno curato. Il motivo è certamente da ricercarsi nelle diverse esigenze funzionali dei differenti elementi: nelle mura la necessità di presentare all’assalitore una facciata quanto più possibile liscia e robusta; nel setto interno, invece, una più semplice azione di contenimento del terreno.
Nota anche come Porta dello Steccato. Aperta in un breve dente della linea delle mura, la porta mostra il consueto profilo rastremato degli stipiti e la coppia di architravi monolitici, le cui dimensioni toccano i tre metri e mezzo di lunghezza.
Alla base della porta, in uno scavo condotto al suo interno dalla Soprintendenza Archeologica del Lazio, vennero rinvenuti i resti di buche di palo attribuite a una capanna databile al tardo VII – inizi VI secolo a.C., e, presso lo stipite destro, parzialmente distrutta dalla costruzione delle mura, una tomba di una fanciulla della stessa epoca: i materiali di questo scavo sono oggi esposti al Museo Archeologico di Segni.
Subito oltre lo spigolo della porta si incontrano le uscite di due fognoli. Il primo di questi ha il condotto interno ancora assolutamente sgombro, tanto che molte persone raccontano di averlo percorso ai tempi della loro infanzia. La suggestione data da un passaggio così angusto, ma pur percorribile, può essere all’origine del curioso soprannome di “locca d’oro” (la gallina d’oro) con cui il fognolo è noto a Segni, testimonianza di una diffusissima tradizione, presente in molte città del Lazio, che associa ai grandi resti delle strutture antiche l’idea di inestimabili tesori nascosti.
La particolarità di questa posterula consiste nell’inusuale forma “ad ogiva” della copertura, realizzata sagomando in tale forma il profilo interno dei blocchi che la compongono.
È priva della copertura, ma conserva al suo interno, nel lato verso monte, parte del muro di protezione del corridoio interno.
Questa porta consentiva l’accesso di un importante asse viario che, provenendo dalla zona di Anagni, risaliva il monte lungo le sue pendici orientali; una volta in città esso diveniva il principale asse est-ovest della viabilità urbana, che raggiungeva direttamente la piazza forense ricalcando nel suo ultimo tratto l’odierna via Lauri.
Della porta si conserva la sola metà sinistra del saliente in cui essa si apriva: ben visibile l’unico stipite superstite, che mostra la particolarità di essere perfettamente verticale e che conserva, nella sua terminazione superiore, un incasso rettangolare destinato all’appoggio del sistema di copertura, che si può immaginare certamente la presenza, come nelle altre, di un grande architrave monolitico, ma non può essere escluso, vista la probabile ampiezza della luce da coprire, l’utilizzo di un altro sistema, quale ad esempio una copertura ad arco in conci di calcare o di altro materiale.